Il Russia-Italia film festival sta arrivando al rush finale. Il 12 novembre si chiuderà la kermesse che ha portato a Mosca gli ultimi lungometraggi Made in Italy, per trasferirsi poi a Novosibirsk (14-26 novembre) e a San Pietroburgo (23 novembre-3 dicembre).
Ospite del RIFF, nei giorni scorsi, il regista Gianfranco Pannone, che ha presentato al pubblico russo i suoi film documentari “Lascia stare i santi”, fotografia delle tradizioni religione in Italia, “Sul vulcano”, racconto di vita alle pendici del Vesuvio, e “L’esercito più piccolo del mondo”, approfondimento sulle tradizioni secolari della Guardia svizzera pontificia.
Non è la prima volta che viene a Mosca. Come è cambiata secondo lei questa città negli anni?
L’avevo vista per la prima volta nel 2000: era una città che stava attraversando un periodo difficile, anche dal punto di vista economico. E lo si percepiva. Oggi invece ho scoperto una realtà molto più ricca, globalizzata, vivace, bella. Bella è un aggettivo che può suonare banale, ma non lo è affatto.
A Mosca ha presentato alcuni suoi film documentari, come “Sul Vulcano” e “L’esercito più piccolo del mondo”, dedicati ad aspetti molto peculiari della realtà italiana. Che importanza ha mostrare documentari come questi a un pubblico straniero?
Non è ovviamente un compito facile. L’Italia è un Paese complesso, così come la Russia. Per me ciò che conta è che il pubblico provi delle emozioni e che non abbia la pretesa di capire sempre tutto. E da questo punto di vista gli spettatori russi dimostrano sempre un impatto emotivo molto forte. Forse siamo facilitati dal fatto che l’Italia qui è molto amata.
Per quanto riguarda il film “Sul vulcano” ho sempre avuto l’impressione che i russi lo capissero benissimo, perché qui c’è un rapporto molto complesso con la natura.
Che impressione le ha fatto il pubblico russo?
È un pubblico molto attento. In sala c’è un silenzio che noi italiani non sempre rispettiamo. Inoltre è molto partecipativo nel dibattito dopo la proiezione: molte domande, tanta curiosità, una bella tensione.
Le hanno rivolto qualche domanda che l’ha colpita particolarmente?
Al termine del film più di qualcuno ha posto delle domande sull’approccio registico, sul perché avessi fatto determinate scelte di regia e di montaggio. Insomma, domande sul cinema, inteso come come linguaggio, che non si sentono spesso.
In Russia vengono organizzati moltissimi festival dedicati al cinema italiano. In Italia, invece, non sempre c’è la stessa attenzione nei confronti del cinema russo...
L’Italia in questo momento è un Paese molto chiuso in sé stesso, autoreferenziale. Si conosce poco di ciò che accade fuori. Inoltre mi sembra che stia serpeggiando un po’ di depressione e spesso si preferiscono le commedie. Ecco che il film d’autore non viene apprezzato immediatamente. Ed è risaputo che i film russi non siano sempre facili.
Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei, per promuovere maggiormente il cinema russo nel nostro Paese?
Credo che debba partire tutto dalla scuola: l’audiovisivo dovrebbe far parte del programma di insegnamento della scuola dell’obbligo. Solo così si potranno creare spettatori consapevoli. Inoltre il problema sta nel fatto che oggi c’è moltissima offerta, in Rete si trova di tutto e spesso le cose più belle si perdono. I nostri spettatori, non solo quelli giovani, sono spesso spettatori passivi che fanno fatica a reggere un film d’autore. Il bianco e nero, per esempio, è considerato qualcosa di vecchio. Ma è il concetto di vecchio a essere sbagliato: quando un film è straordinario, è sempre contemporaneo!
Le serie televisive stanno registrando un forte boom e Netflix ha acquistato alcune produzioni russe: potrebbe forse essere questo il canale per far conoscere il mondo russo all’estero?
Sta nascendo una nuova forma di narrazione. Mentre il cinema è da sempre una grande funzione religiosa, in cui si spengono le luci e si entra in silenzio, la serie tv si avvicina di più al romanzo: proprio come i romanzi, anche le serie tv vengono iniziate, seguite, abbandonate e poi riprese. Tutto ciò ovviamente è molto affascinante ma il problema è che per fare delle buone fiction sono necessari grandi scrittori e grandi registi. Reggere una durata molto lunga è difficile e si rischia di cadere in vuoti che annoiano.
Ad ogni modo credo che le serie non facciano male al cinema. Il cinema sarà sempre un po’ più di nicchia mentre la televisione, attraverso le serie, può aiutare a creare una maggior consapevolezza. Ed ecco che lo spettatore ha un’opportunità in più per crescere.
Bisogna tuttavia ammettere che c’è molta offerta e rischiamo di non accorgerci delle cose belle che ci sono nel mondo: magari esiste una serie televisiva russa straordinaria ma non la conosciamo.
Parlando dei film russi, c’è qualche regista russo che ha segnato il tuo percorso?
Sicuramente sì! A parte i classici del cinema, come Ejzhenstejn e Dziga Vertov, ci sono autori che amo molto, come Tarkovskij e il suo “Andrej Rublev”. E poi ancora i ritratti di Sokurov ai personaggi della storia del Novecento: mi piace molto questo suo approccio nei confronti della storia, lo sento molto vicino, con la differenza che lui lo fa attraverso i grandi uomini, io lo faccio attraverso le persone comuni. Amo molto anche altri registi, in questo caso legati al mondo armeno e georgiano: Paradzhanov e Peleshyan, due poeti del cinema. Nelle repubbliche dell’ex unione sovietica esistono grandi poeti visivi e grandi incantatori. E in alcuni miei film, come “Lascia stare i santi”, quei registi talvolta ritornano.
C’è un aspetto della realtà russa che le piacerebbe raccontare in un documentario?
L’uomo in una terra sterminata... l’uomo che si sente piccolo e solo. Per esempio Andrej Rublev, il monaco che gira il suo Paese creando arte, ma che sa di essere piccolo in mezzo a una terra dove la natura è più forte. Questa cosa mi affascina molto.
Ma penso anche ai soldati italiani che durante la Seconda guerra mondiale vennero a combattere in questa steppa infinita con le scarpe di cartone, trovando spesso soccorso nelle donne russe. Questa terra sa essere crudele e generosa, come ci ha insegnato Dostoevskij. E credo che la letteratura russa sia la cosa più bella che sia mai stata scritta: Gogol e Gorkij, Tolstoj e Mayakovskij... Sono il frutto di una profondità inevitabile di fronte alla tragedia del vivere in una terra così dura.
Nei suoi lavori riconosce qualcosa, anche inconsapevolmente, che deriva per l’appunto dalla profondità della letteratura russa?
Sono cresciuto leggendo i libri di Dostoevskij: “I fratelli Karamazov”, “L’Idiota”, “Delitto e Castigo”. Sono stati un viaggio dentro la miseria e la grandezza. E mi rendo conto che oggi Dostoevskij e il suo senso disperatamente cristiano mi appartengono molto. Aver letto questi libri mi ha permesso di provare a essere meno superficiale.
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