Ildar Dadin nel centro di Mosca durante una protesta anti-governativa.
: AFP / East NewsAppeso per le manette, pestato, minacciato di abusi sessuali. “Mi ammazzeranno e poi mi seppelliranno dietro la palizzata”: così si legge nella terribile lettera scritta martedì 1° novembre dall’attivista dell’opposizione Ildar Dadin, detenuto nella colonia penale di Segezha (nella Repubblica di Carelia, a oltre mille chilometri da Mosca) a cui i media hanno dato grande risalto e che ha fatto inorridire la società. “L’11 settembre 2016 sono stato pestato da 10-12 persone contemporaneamente, quattro volte nell’arco di una giornata. Mi hanno percosso sulle gambe. E dopo il terzo pestaggio mi hanno infilato la testa nello scarico del gabinetto nella mia cella d’isolamento”.
“Il 12 settembre 2016 mi hanno ordinato di incrociare le braccia dietro la schiena e mi hanno appeso per le manette… e poi mi hanno sfilato le mutande e mi hanno detto che avrebbero fatto venire un altro prigioniero a violentarmi”. A descrivere queste torture è l’attivista dell’opposizione Ildar Dadin, il primo russo a essere stato condannato per aver reiteratamente violato le norme sulle manifestazioni pubbliche. Dadin, 34 anni, era stato processato nel dicembre 2015 e condannato a due anni e mezzo di detenzione. La sentenza aveva provocato grande clamore. E a manifestare il loro appoggio non erano stati solo i russi che vedevano in lui un “prigioniero della libertà”, ma anche semplici cittadini che consideravano quell’articolo di legge eccessivamente severo, oltre che anticostituzionale.
Dalla colonia penale filtravano di rado notizie sul suo conto. Si era parlato di una denuncia alla Corte europea dei diritti dell’uomo e della probabile riapertura di un nuovo processo, ma questa nuova notizia ha sollevato un gran clamore. Dadin non ha scritto al Presidente, ma a sua moglie (la lettera l’ha dettata al suo avvocato). Nell’arco di 24 ore il caso del crudele trattamento subito da Dadin è stato preso in esame al Cremlino, gli attivisti dei movimenti per i diritti umani hanno preso d’assalto la colonia penale e organizzato dei picchetti davanti agli uffici del Servizio penitenziario federale russo mentre i funzionari indagavano sull’accaduto. Mai si era verificata una reazione così rapida, addirittura istantanea, a una pubblica denuncia, considerando che le Ong riferiscono regolarmente di casi di tortura nelle prigioni russe.Secondo Dadin, tutto ha avuto inizio dal suo primo giorno di detenzione nella colonia penale della Carelia: prima hanno sistemato a sua insaputa delle lamette, poi hanno finto di scoprirle per caso e l’hanno spedito in cella d’isolamento. “Qui è una prassi abituale… Serve a far capire ai detenuti in che razza d’inferno sono finiti”. Dadin ha reagito annunciando uno sciopero della fame. Tutti gli episodi successivi sarebbero dei tentativi messi in atto dall’amministrazione carceraria per “ridurre a più miti consigli” il detenuto.
Quando è stata resa nota la lettera in cui venivano denunciate le torture nella colonia penale di Segezha, Tatiana Moskalkova, commissario per i diritti umani della Federazione Russa, ha dichiarato di monitorare personalmente la situazione, mentre il portavoce del Presidente, Dmitrij Peskov, ha promesso che avrebbe riferito il caso a Vladimir Putin.
Fonti del Servizio penitenziario federale russo in un’intervista concessa al giornale Novaya Gazeta hanno ammesso il ricorso alla “forza fisica” provocato dalla reazione di Ildar che “avrebbe fatto uso di turpiloquio rifiutandosi di uscire dalla sua cella” e avrebbe aggredito le guardie. Ma il ricorso alla violenza in seguito è stato smentito. Successivamente al Servizio penitenziario federale hanno dichiarato di possedere dei filmati in cui Ildar rinnegava le sue parole sulle torture subite e anche un referto medico da cui non risultava “nessuna lesione sul corpo di Dadin”. Al contempo su alcuni media vicini al governo sono apparse foto di Dadin in “condizioni normali”. Tuttavia, ciò non ha convinto la società civile: i filmati non sono stati mostrati e anche la data delle foto pubblicate ha dato adito a dubbi.
Tempo fa nella stessa colonia penale ha scontato la sua pena anche l’ex capo della Yukos, Mikhail Khodorkovskij. Gli attivisti dei movimento per i diritti umani raccontano che erano state sporte altre denunce sulle condizioni dei detenuti, ma non legate all’uso della violenza. Tuttavia, come rileva Igor Kalyapin, portavoce del “Comitato contro la tortura”, quello di Ildar Dadin “potrebbe essere un caso particolare”.
Dadin gode di molta popolarità, e in questo senso non può essere considerato un prigioniero qualunque. Forse proprio per tale motivo la blogosfera ha reagito così attivamente solo ora alle notizie circolate sul ricorso alla tortura nelle carceri. Sul caso dell’attivista dell’opposizione hanno scritto i più famosi blogger del Paese e la foto del maggiore Kossiev, direttore della colonia penale, che avrebbe partecipato ai pestaggi, è stata postata da migliaia di utenti dei social. Dadin è stato soprannominato il “nuovo Magnitskij” (dal caso dell’avvocato russo Sergej Magnitskij, morto nel 2009 nel carcere moscovita di Butyrka in circostanze sospette, ndr) ed è stata lanciata una raccolta di firme per una petizione in cui si chiede d’indagare sull’incidente e di riaprire il caso (nell’arco di due giorni sono state raccolte quasi 18mila delle 25mila firme necessarie).Ma ipotizzando che tali reazioni non dipendano solo dalla personalità del detenuto, si può concludere che nel Paese sia in aumento il numero dei cittadini che non restano indifferenti a questi fatti. E proprio questo potrebbe essere il fattore che ha reso possibile ciò che era inimmaginabile solo 10 anni fa, vale a dire l’immediata reazione da parte del governo, scrive Stanislav Kucher, opinionista del giornale Kommersant. Forse è diventato più difficile celare il male, o forse come osserva il giornalista Anton Orekh, nella società civile si comincia a capire che a ogni persona potrebbe capitare di finire in prigione anche senza essere colpevole”. “È questa la ragione per cui la vicenda di Ildar Dadin risulta così importante per tutti noi, nessuno escluso”, conclude Orekh.
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