Dhziga Vertov durante le riprese di un film.
RIA NovostiDzhiga Vertov fu il primo ad accostarsi all’opera cinematografica non come a una messinscena teatrale o a un documento storico, bensì come a un prodotto a sé stante. “Io sono il cineocchio, l’occhio meccanico. Una macchina che vi mostra il mondo solo come io posso vederlo”, proclamava nei suoi manifesti programmatici.
Secondo Vertov, l’efficacia dell’impatto di un film sullo spettatore non dipendeva dal fatto che gli attori rappresentassero una storia interessante davanti alla macchina da presa o dal fatto che la telecamera fosse posizionata in un determinato luogo, per esempio durante un meeting al quale sarebbe dovuto intervenire Lenin. L’essenziale, a suo avviso, risiedeva nell'alternanza dei piani con cui venivano filmate le sequenze, nel ritmo di successione dei fotogrammi e nell’uso della ripresa accelerata e rallentata.
Perfino gli eventi ufficiali, dei quali Vertov si occupava a causa del suo incarico - dal 1922 al 1925 diresse il dipartimento di cinecronaca statale del’Unione panrussa dei cineasti, in seguito Goskino, ente preposto in epoca sovietica all’industria cinematografica e alla censura - venivano filmati da prospettive e angolazioni totalmente inaspettate: da macchine in movimento o dalle ciminiere di una fabbrica, da sotto le ruote di un treno o da una telecamera nascosta.
“L’uomo con la macchina da presa”, un film documentario sperimentale del 1929 diretto da Dzhiga Vertov
Per questo motivo nei soggetti dei primi film girati da Vertov spesso è facile individuare un secondo piano di lettura. Tra essi, i più interessanti e sperimentali appaiono “Il cineocchio” (1924) e “L’uomo con la macchina da presa” (1929); monumentali cine-affreschi, i cui temi si possono sintetizzare in formule come “La vita della grande città” e “Il vecchio e il nuovo”. In questi film l’effetto artistico viene raggiunto grazie al parallelismo tra la successione delle scene e il ritmo concitato del montaggio.
Il primo dei film citati fu insignito di una medaglia e di un diploma all’Esposizione universale di Parigi nel 1924; mentre il secondo, in un sondaggio effettuato nel 2010 tra i critici cinematografici europei, è risultato tra le dieci pellicole più straordinarie di tutti i tempi ed è stato giudicato il miglior film documentario.
Una teoria del montaggio che arriva dal passato
La produzione cinematografica negli anni '10 e '20 ebbe un rapido e inarrestabile impulso in diversi Paesi, attraverso i film d’intrattenimento e i documentari, fino all’avvento del sonoro. Tuttavia Vertov aveva già per molti aspetti anticipato autori quali David Griffith, Fritz Lang e Leni Riefenstahl, il cui film, “Olympia”, del 1938, è considerato un modello di riferimento per il cinema documentario.
D’altra parte, come ogni artista dell’avanguardia che si rispetti, è possibile che anche Vertov si sia ispirato più o meno consapevolmente alla tradizione. Così, negli articoli della maturità del grande scrittore russo Lev Tolstoijo, ritroviamo non solo un rifiuto categorico delle regole del teatro tradizionale (dei drammi di Shakespeare e del teatro classico), ma anche un’idea che anticipa già la futura teoria del montaggio cinematografico, ovvero che l’arte non scaturisce dalla creazione di personaggi brillanti e dal racconto delle loro peripezie, bensì dalla successione e dalla “combinazione” di una serie di elementi, vale a dire dal montaggio.
Un nome irrequieto
Vertov era nato David Kaufman, un cognome che denotava le sue origini ebraiche. Il giovane e dotato artista originario di Białystok (città della Polonia, che allora faceva parte dell’Impero Russo), una volta trasferitosi a Mosca scelse di adottare un altro nome probabilmente per sfuggire all’antisemitismo, che negli anni Venti non imperversava ancora come poi sarebbe stato negli anni Cinquanta. Oppure, semplicemente, come molti altri artisti dell’avanguardia, Vertov aveva deciso di attribuirsi un nuovo nome che segnasse simbolicamente l’“inizio di una nuova vita”.
“Dzhiga” in ucraino significa trottola e “Vertov” deriva invece preso dal verbo russo “vertet”, roteare.
Il significato finale di “trottola rotante” si addice perfettamente all’indole frenetica del regista.
Oltretutto Kaufman era un cognome ebraico piuttosto comune ed è improbabile che sarebbe diventato un “trademark” d’effetto. La notizia curiosa è che il fratello di Dzhiga, Boris Kaufman, di dieci anni più giovane, dopo la rivoluzione emigrò dalla Russia a Parigi dove si laureò alla Sorbona e in seguito si trasferì in America, dove diventò un famoso cineoperatore e collaborò con registi quali Sidney Lumet ed Elia Kazan. La collaborazione con quest’ultimo per il “Fronte del porto” gli valse nel 1953 un Oscar.
La rinascita in “Dogma”
Fortunatamente, Vertov non condivise il destino tragico di molti esponenti dell’avanguardia russa. Non fu ucciso, né internato in un gulag. Ma, dopo che il breve sodalizio tra il potere sovietico e le avanguardie artistiche si era concluso, il leader sovietico Iosif Stalin aveva iniziato a prediligere uno “stile imperiale” e le innovative opere di Vertov apparivano inadatte.
Durante la Seconda guerra mondiale Vertov girò tre pellicole giornalistiche, mentre tutte le sue successive proposte furono respinte. Dal 1944 fino alla morte, avvenuta nel 1954, lavorò come tecnico di ripresa e montaggio per il cinegiornale “Novosti dnia” (Le notizie del giorno”).
L’interesse nei confronti di Vertov riprese alla fine del XX secolo, allorché i registi che avevano aderito a “Dogma-95” (manifesto programmatico del cinema indipendente della metà degli anni '90, il cui ideatore e promotore era Lars Von Trier) decisero di ritornare ai principi già enunciati da Vertov: la ripresa in diretta della realtà, l’utilizzo della camera a mano, l’autenticità dei personaggi. Nel 1995 Michael Nyman compose la sua colonna sonora per “L’uomo con la macchina da presa”. Fu così che Vertov da artista dell’avanguardia si trasformò alla fine in un classico.
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