"Un mondo perduto e ritrovato", Aleksandr Lurja
È il 2 marzo del 1943. Sul fronte occidentale si scontrano tedeschi e russi. Un giovane tenente dell’Armata Rossa è colpito da una pallottola alla testa che gli provocherà gravissimi danni neurologici. Salvo per miracolo, trascorrerà il resto della vita cercando di recuperare la memoria persa. “Un mondo perduto e ritrovato” (Adelphi, 233 pagine, 18 euro) è la storia vera del soldato Lev Zaseckij, pazientemente raccolta e ordinata dal neuropsichiatra russo Aleksandr Lurija, il medico che lo ebbe in cura. Lurija dagli anni Venti si dedicò con un approccio straordinariamente moderno alla ricerca su lesioni cerebrali, morbo di Parkinson, nevrosi e disturbi cognitivi.
La copertina del libro |
Tremila pagine che coprono un arco di venticinque anni. Un racconto a due voci. La prima è quella di Zaseckij, che ripercorre in un diario personale la storia della sua caduta e della sua rinascita, seppure parziale. L’altra è quella dello stesso Lurija che interviene di tanto in tanto a commentarne i progressi. È una biografia clinica, un “romanzo neurologico” che, anche quando indugia in particolari e spiegazioni scientifiche, resta sempre estremamente scorrevole e chiaro.
La seconda guerra mondiale, con tutto il suo carico di atroce violenza, fornisce abbondante “materiale” di studio ai neuropsicologi dell’epoca. Sono tanti coloro che sopravvivono a gravi ferite alla testa e ne restano segnati per la vita. Zaseckij ad appena ventitré anni viene colpito da una pallottola che gli danneggia l’emisfero sinistro del cervello, dove risiedono le importanti funzioni della memoria, del pensiero, del linguaggio. Quando Lurija lo prende in cura, Lev ha perso metà del campo visivo e la facoltà di coordinare se stesso e gli oggetti nello spazio. Camminando, sbatte contro le pareti. Ha smarrito la percezione di destra e sinistra e l’esatta collocazione delle parti del proprio corpo. Sa, ad esempio, che la mano è attaccata in fondo al braccio, ma non è in grado di servirsene. Non riesce a portare il cucchiaio alla bocca. Si sbrodola, rovescia la zuppa sui pantaloni. Ricorda nome e patronimico, ma non l’indirizzo dei familiari ai quali non può mandare notizie del suo ferimento. Lui, brillante studente di ingegneria meccanica, ha dimenticato persino i caratteri dell’alfabeto cirillico. È lento nel formulare i pensieri e la testa gli pulsa terribilmente ad ogni sforzo. Per ricominciare a parlare si sottopone ad estenuanti sedute di logopedia. La sua memoria è come una pagina bianca, su cui comincerà a scrivere un nuovo capitolo dell’esistenza: "Il ferimento mi aveva trasformato in uno strano bambino analfabeta e smemorato".
E, come fanno i bambini, Lev impara. A leggere. A scrivere. A barcamenarsi in un mondo estraneo, frantumato in mille schegge da quella pallottola che gli ha trapassato il cervello. Nel suo lunghissimo e incompiuto cammino di riabilitazione fisica e mentale, Lurija gli è sempre accanto, con una sollecitudine che tradisce la sincera ammirazione per un uomo che "ha offerto alla scienza un documento tragico e si è trasformato da vittima in ricercatore, penetrando nel mondo misterioso del cervello umano".
Il diario è l’ancora di salvezza di Zaseckij. Quella scrittura – dapprima incerta, esitante come il flusso dei suoi pensieri, poi via via più fluida – è l’occupazione quotidiana di chi è condannato all’inabilità, incapace persino di cucire un bottone o piallare una tavola di legno. È la bussola che gli permette di non andare alla deriva in un mondo perduto e, a dispetto del titolo, mai più ritrovato.
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