Il piroscafo “Cheljuskin” salpò dal porto di Murmansk alla volta dell’Isola di Wrangel il 10 agosto 1933. Lo scopo era quello di verificare se le navi normali fossero in grado di navigare nei ghiacci dell’Artico. Approdando sull’isola, la spedizione avrebbe dovuto dimostrare la praticabilità della Rotta artica per i trasporti di questo tipo. Fino ad allora, la pericolosa rotta era stata percorsa soltanto da pesanti navi rompighiaccio, perché nessuno se la sentiva di mandarci una nave normale, pertanto il “Cheljuskin” doveva essere il pioniere.
La nave “Cheljuskin”. Il compito della spedizione alla quale fu destinata era quello di verificare la possibilità di percorrere con una nave non rompighiaccio la rotta marittima del Nord in una sola stagione
SputnikA bordo della nave si trovavano 104 persone, compresi i partecipanti della spedizione e membri delle loro famiglie che dovevano trascorrere l’inverno sull’isola di Wrangel. Il carico comprendeva provviste di cibo per 18 mesi per i passeggeri della nave, e provviste per 3 anni destinate all’isola di Wrangel.
Otto Schmidt (1891-1956), comandante della spedizione, è stato uno scienziato, esploratore ed enciclopedista sovietico, membro del Pcus e celebre per le sue tante spedizioni nell’Artico
Otto SchmidtI partecipanti erano convinti che tutto sarebbe andato secondo i piani, perché la spedizione era comandata da Otto Schmidt (1891-1956), esploratore esperto che più volte aveva dimostrato la sua abilità nelle acque del Mar Glaciale Artico. L’inizio del viaggio fu molto più confortevole rispetto alla successiva navigazione in acque pericolose: la spedizione era supportata da aerei di ricognizione, che partivano dalla terraferma, e con i quali si poteva comunicare via radio. Il successo sembrava garantito, ma qualcosa andò storto.
All’inizio, tutto filava liscio, ma il 15 agosto, quando la nave entrò nel Mare di Kara, nello scafo fu scoperta una breccia. Tre giorni dopo, la nave cominciò a imbarcare acqua. In seguito, urtando contro i ghiacci pesanti, la nave subì altre due danneggiamenti. Tuttavia, nonostante la gravità della situazione, fu deciso di continuare la spedizione. Secondo il piano, il viaggio doveva durare circa un mese. Infatti, nel mese di settembre, la nave si trovava già nel Mar della Siberia Orientale, quindi procedeva più o meno secondo il programma.
I membri della spedizione del “Cheljuskin” il 10 agosto 1933, prima della partenza
SputnikTuttavia, nel Mar della Siberia Orientale si dovette affrontare un altro problema: nevicava pesantemente. La neve e la nebbia che si alzava dall’acqua rendevano impossibile la ricognizione aerea, la nave manovrava tra i ghiacci praticamente alla cieca.
Alla fine di settembre, nel Mare dei Ciukci, la nave finì in trappola: rimase completamente bloccata dai ghiacci, il cui spessore raggiungeva i 6 metri.
Bloccata in mezzo al mare, la nave non poteva muoversi. All’inizio, la squadra della spedizione provò ad aprire un passaggio usando gli esplosivi; tuttavia, lo spessore del ghiaccio era tale che persino l’ammonal, normalmente usato nelle cave e nelle miniere, risultò inutile. Il “Cheljuskin” poteva soltanto affidarsi alla deriva in attesa di condizioni più favorevoli per essere liberata.
Il Cheljuskin ormai intrappolato tra i ghiacci. Dopo mesi di deriva sulla banchisa la nave s’inabissò il 13 febbraio 1934, stritolata dal pack presso l’Isola di Koljuchin, nel Mare dei Ciukci
Sputnik“Il ghiaccio oggi è poco tranquillo. La deriva ha raggiunto la velocità di sette metri al minuto. Non so a cosa andiamo incontro questa notte. Stiamo vivendo come su un vulcano o in trincee totalmente visibili al nemico”, scrisse del suo diario Ibrahim Fakidov, uno degli ingegneri della spedizione.
In questa situazione di incertezza la squadra trascorse ben 5 mesi. Nonostante la situazione fosse in apparenza tranquilla, il capitano Schmidt era consapevole che il ghiaccio poteva muoversi in qualsiasi momento, inabissandoli tutti. Il muro di ghiaccio si stava avvicinando, pertanto fu deciso di scaricare la nave, evacuando tutti i passeggeri e le provviste sulla banchisa.
L’equipaggio aveva spostato in tempo attrezzature e cibo sul ghiaccio e costruì delle tende per sopravvivere per mesi alla deriva
TASSIl capitano aveva intuito bene. Il 13 febbraio del 1934 fu l’ultimo giorno di “Cheljuskin”: la nave fu schiacciata dai ghiacci come fosse di carta. In sole due ore affondò, lasciando le persone su un lastrone di ghiaccio in mezzo allo sterminato mare.
La vita sulla banchisa alla deriva non era facile: di notte la temperatura scendeva spesso al di sotto dei -30 °C, e anche le provviste erano limitate: si doveva risparmiare. Alla riva mancavano soltanto 130 km, ma arrivarci, affidandosi soltanto alla forza della natura, era impossibile.
Per alleggerire almeno un po’ le loro condizioni, i membri della spedizione costruirono delle baracche con i materiali che erano destinati all’isola di Wrangel e con quel che restava della nave “Cheljuskin”, distrutta dai ghiacci. A 5 km dall’accampamento improvvisato, fu allestita una pista di atterraggio per gli aerei che prima o poi sarebbero dovuti venire in soccorso. Ecco come ricordava le prime notti sul ghiaccio uno dei sopravvissuti: “Si diceva che le tende erano troppo strette. Si parlava della fine del Cheljuskin. Si diceva che il ‘chiasso’ era di proporzioni mondiali, che la fine della nave era stata terrificante. Tutti erano stremati”.
Più il tempo passava, e più le persone si adattavano alla vita nella “trappola di ghiaccio”. A un certo punto, si cominciò persino a “editare” un giornale improvvisato, intitolato “Non ci arrenderemo”, per sollevare lo spirito dei viaggiatori. Di sera, il capitano Otto Schmidt teneva per i membri della spedizione delle lezioni di filosofia.
Sin dai primi giorni sul ghiaccio, veniva svolta anche attività scientifica. Ogni giorno, gli esperti di idrologia e geodesia determinavano la posizione esatta della banchisa. Lo si doveva fare quotidianamente, perché la deriva dei ghiacci non si fermava e la banchisa era in continuo movimento.
Quando gli esploratori erano sbarcati sulla banchisa, il governo già era al corrente del fatto che il “Cheljuskin” era affondato. Fu disposta un’operazione di soccorso, alla quale dovevano partecipare 17 aerei. Tuttavia, anche per i piloti non era facile scoprire i viaggiatori alla deriva, perché la visibilità era fortemente ridotta dalla neve. In più, la banchisa era in continuo movimento, rendendo ancora più difficile l’avvistamento.
Il primo aereo atterrò sulla pista improvvisata, creata dagli esploratori, soltanto il 5 marzo. Era un pesante Tupolev ANT-4 (versione civile del bombardiere TB-1). I primi a essere evacuati furono le donne e i bambini. Il secondo aereò poté atterrare soltanto un mese dopo. In tutto, nell’ambito delle operazioni di soccorso furono effettuati più di 20 voli. L’ultimo gruppo dei sopravvissuti fu tratto in salvo il 13 aprile del 1934. In totale, i passeggeri del “Cheljuskin” trascorsero sulla banchisa due mesi.
I piloti degli aerei che parteciparono alle operazioni di soccorso furono le prime persone a ricevere l’appena istituito titolo onorifico di Eroe dell’Unione Sovietica
Vladislav Mikosha/SputnikSulla terraferma, i reduci dell’epopea di “Cheljuskin” furono accolti come dei veri eroi, e l’operazione di salvataggio fu seguita col fiato sospeso dall’intero Paese. Per la prima volta nella storia del Paese, l’appena istituto titolo di Eroe dell’Unione Sovietica fu conferito a 7 piloti che parteciparono all’evacuazione della spedizione: Mikhail Vodopjanov, Ivan Doronin, Nikolaj Kamanin, Sigismund Levanevskij, Anatolij Ljapidevskij, Vasilij Molokov e Mavrikij Slepnev, mentre i membri della spedizione, per il loro coraggio, dimostrato nell’affrontare le avversità della natura, furono insigniti dell’Ordine della Bandiera Rossa.
L’equipaggio del Cheljuskin aveva costruito sul ghiaccio una pista per atterraggi aerei di emergenza usando solo alcune vanghe e badili da neve. La pista dovette essere ricostruita tredici volte prima dell’arrivo dei soccorsi. Nell’aprile del 1934 l’equipaggio fu evacuato
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