Trenta ettari di terreno, un recinto di filo spinato e alcune baracche, costruite con mattoni di fango. Questo, in sostanza, era il lager di Akmol (fino al 2007 Malinovka) per le mogli dei traditori della Patria (conosciuto con l’acronimo ALZhIR o come Distaccamento 26; “26-ja Tochka”).
Il lager si trovava in Kazakistan, vicino al villaggio che oggi porta il nome di Akmol. Dal 1938 al 1953 (quando il lager fu chiuso), da questo luogo di isolamento passarono decine di donne dei “traditori”.
L’ordine dell’Nkvd (Commissariato del popolo per gli Affari interi) “Sulle repressioni nei confronti delle mogli dei traditori della Patria condannati e sulla sistemazione dei loro figli” fu emanato il 15 agosto 1937, dopo di che, in pochissimo tempo, il lager, ancora in corso di costruzione, si riempì di donne arrestate.
Le repressioni furono scatenate contro le moglie ed ex mogli di tutti gli uomini condannati per attività di spionaggio, partecipazione ai complotti o per legami con organizzazioni di stampo trozkista. L’eccezione si faceva per le donne incinte, per le anziane e per le donne che erano “malate gravi o contagiose”. A questa categoria veniva imposto l’obbligo di dimora.
La prigioniera dell’“Alzhir” Rakhil Messerer-Plisetskaja, con i suoi bambini. La figlia Maja diventerà una celeberrima ballerina
Foto d'archivioLe donne dei “traditori” non venivano processate. La decisione del Consiglio speciale dell’Nkvd veniva semplicemente comunicata. Galina Stepanova-Kljuchnikova, moglie di Andrej Kljuchnikov, docente di matematica presso l’Accademia Zhukovskij, ricordava che, quando fu convocata, c’erano due militari seduti alla scrivania che le diedero un foglio, che lei dovette firmare. Fare appello era impossibile, perché la decisione era già stata presa molto tempo prima. “Dopo la firma, veniva la cella di transito e il lungo viaggio verso le steppe kazake”, ricordava la donna.
Dati esatti sul numero delle donne condannate sulla base dell’ordine dell’Nkvd tuttora non ne esistono; i documenti restano segreti. È stata scoperta soltanto una lettera informativa, indirizzata a Stalin e firmata dal capo dell’Nkvd, Nikolaj Ezhov, e da Lavrentij Berija, nella quale vengono menzionate “18 mila mogli dei traditori arrestati”.
Le donne lavoravano in condizioni terribili. Da questo punto di vista, le condizioni dell’ALZhIR erano molto più severe rispetto ad altri lager del sistema Gulag. In particolare, alle donne era vietato ricevere e spedire lettere e pacchi postali, fare lavori conformi alla professione acquisita. Quest’ultimo divieto, però, era piuttosto formale, perché la maggioranza delle donne conosceva i mestieri che avevano un’importanza fondamentale per il funzionamento del lager.
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Nei primi mesi dopo la creazione dell’ALZhIR, l’unico scopo del lavoro era riscaldare le baracche. Per questo si raccoglieva il giunco che cresceva attorno al Lago Zhalanash, che si trovava nel territorio del lager. Tuttavia, il rendimento termico di questa pianta è basso, pertanto ce ne volevano quantità davvero enormi. Le prime donne arrivarono nel lager alla metà dell’inverno e dal riscaldamento dipendeva, se sarebbero sopravvissute fino alla primavera. In conformità al regolamento, le detenute non dovevano uscire dalla baracca, se la temperatura scendeva al di sotto di -30°C (ad Akmol spesso scende anche fino a -40°C). Tuttavia, questa regola era spesso trascurata. La commissione, giunta da Mosca nella primavera del 1938, segnalava 89 donne con gravi lesioni causate dall’assideramento.
“Il lavoro sul lago è durato tutto il giorno. Dopo il turno di dieci ore eravamo esauste, la neve abbagliante faceva male agli occhi. Sembrava che se ci avessero dato il permesso, ci saremmo sdraiate sui covoni di giunco, non aprendo più gli occhi”, ricordava l’ex detenuta Marija Anzis.
Il complesso memoriale “Alzhir”, non lontano da Astana, attuale capitale del Kazakistan
Ilya BuyanovskijQuando finì l’inverno, le donne furono obbligate a progettare e costruire dei locali per lavori di cucitura. Chi aveva la formazione tecnica, il più delle volte lavorava in piccole baracche separate. Chi, invece, aveva studiato le discipline umanistiche, era in situazione più difficile: doveva costruire le baracche per le nuove prigioniere.
Nel complesso museale sono state riprodotte le dure condizioni di vita delle donne recluse
Ilya Buyanovskij“Con i piedi nudi impastavano l’argilla e la paglia, riempivano con questa massa le forme di legno che poi portavano, spaccandosi la schiena, fino al piazzale, dove le forme venivano rovesciate per essiccare i mattoni umidi”, scrisse Galina Stepanova-Kljuchnikova.
Semplici letti di canniccio, quando non tavolacci di legno, erano l’unico possibile riposo dopo ore di sfiancante lavoro
Ilya BuyanovskijA costruzione ultimata, il lager aveva 6 baracche, ciascuna per 300 persone. Dentro si stava stretti, ma c’erano anche altre difficoltà. Malgrado dentro il recinto ci fosse un lago, per lavarsi e lavare la biancheria, ogni donna riceveva soltanto un secchio d’acqua a settimana.
La stampa sovietica di quel periodo citava spesso le parole di Stalin: “Il figlio non risponde di quello che fa il padre”. In realtà, però, tutti erano ritenuti responsabili dell’operato dei genitori.
Se la donna arrivava nel lager con un figlio ancora piccolo o addirittura neonato, il bambino veniva tolto e portato all’asilo che si trovava dentro il recinto. La madre poteva visitare il bambino soltanto per allattarlo al seno. All’età di 3 anni, i bambini venivano trasferiti negli orfanotrofi. Eccezioni non se ne facevano.
I figli dei “traditori” erano visti male, spesso la loro vita diventava insopportabile. “A tutti hanno tagliato i capelli e cambiato i vestiti. Mi è toccato un vestito troppo grande per me, altri lo avevano troppo stretto; poi ci hanno caricato sui vagoni e ci hanno portato nella zona degli Urali. Nell’orfanotrofio tutto doveva essere fatto su comando: sul tavolo veniva messa la zuppa ancora scottante, che non si poteva neanche toccare, ma alcuni minuti dopo la zuppa veniva ritirata e portavano la kasha (porridge), altrettanto scottante; i bambini non facevano neanche in tempo ad assaggiarla, quando risuonava il comando e la kasha veniva portata via. Ci restava soltanto la razione del pane che bisognava consumare velocemente, perché all’uscita ti perquisivano e ti toglievano tutto quello che avevi”, ricordava Iskra Shubrikova, cresciuta in uno di questi orfanotrofi. Suo padre, un funzionario del partito di Novosibirsk, era stato fucilato.
Inoltre, i funzionari del partito indottrinavano i bambini, aizzandoli contro i genitori. A molti minori fu cambiato il nome.
In un articolo sugli orfanotrofi, pubblicato sul sito ufficiale del complesso museale “ALZhIR”, si rileva che, nell’orfanotrofio più vicino al lager, i bambini morti durante l’inverno non venivano seppelliti, perché il terreno era congelato e non si poteva scavare. Pertanto, i corpicini si tenevano in botti di legno fino alla primavera e poi venivano sotterrati in fosse comuni.
Una delle prigioniere più note del campo di ALZhIR fu Rakhil Messerer-Plisetskaja, attrice del cinema sovietico (nome d’arte: Ra Messerer) e madre della celebre ballerina sovietica Maja Plisetskaja. Suo marito, Mikhail, fu condannato per i suoi legami politici. Rakhil trascorse nel lager poco più di un anno, dopo di che ottenne la libertà vigilata e fu trasferita a Chimkent (oggi Shymkent, in Kazakistan), dove insegnò la danza.
All‘Alzhir fu reclusa anche Ashkhen Nalbandjan, madre del poeta e cantautore sovietico Bulat Okudzhava
Archivio personale di Olga Vladimirovna OkudzhavaUn’altra detenuta famosa è Ashkhen Nalbandjan, madre del poeta sovietico Bulat Okudzhava. La donna finì nel lager dopo l’arresto di suo marito, accusato di trozkismo. Il loro figlio, Bulat, che all’epoca aveva 14 anni, rimase solo. Tre anni dopo, il giovane andò al fronte come volontario, sperando che ciò avrebbe giovato a sua madre. Tuttavia, Ashkhen, che continuava a credere nel partito, poté tornare a Mosca soltanto nel 1947.
Oggi, sul sito dell’ALZhIR (sigla che viene dal nome non ufficiale “Акмолинский лагерь жён изменников Родины”; “Akmolinskij Lager ZHjon Izmennikov Rodiny”; “Lager di Akmol per le mogli dei traditori della patria”) è stato creato un complesso memoriale, dedicato alle vittime delle repressioni. Del lager stesso non è rimasto praticamente nulla, ma nel museo locale sono esposte delle copie delle baracche in scala ridotta, fatte con gli stessi materiali di quelle originali: argilla e paglia.
Il memoriale delle vittime della repressione staliniana ad Akmol, chiamato “Arka skorbi”; l’“Arco del dolore”
OspreyPL (CC BY-SA 4.0)Ci sono anche una replica di una “krasnukha”, il vagone per il trasporto dei prigionieri, e il monumento “Arco del dolore” (“Арка скорби”), che a detta dei rappresentanti del museo simboleggia “l’ingresso, attraverso il quale si accede alla terra santa, dove avviene l’incontro dei due mondi; il mondo dei vivi e quello dei morti”.
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