Innanzitutto bisogna dire che l’emissione del 1919 – la prima con falce e martello e senza aquila bicipite – non fu, strettamente parlando, di cartamoneta. I bolscevichi stavano edificando il comunismo, e quella comunista doveva essere “una società senza classi, senza denaro e senza Stato”.
Ecco dunque che non si parlava più di “denaro” e di “moneta”, ma di “raschjotnye znaki“ (“indicatori di pagamento”) e più tardi (nel 1922) di “denezhnje znaki” (“indicatori monetari”), o, in abbreviazione, di “sovznaki”, dove “sov”, stava ovviamente per sovietico e “znaki” per “segni”, “indicatori”; insomma per qualcosa che “indica” il valore senza esserlo. De facto erano la moneta usata in tutte le zone controllate dai bolscevichi durante la Guerra Civile, ma de iure non erano moneta (i soldi veri e propri sarebbero tornati dal 1924).
In questa prima fase di travagliato potere sovietico non si era ancora affermata l’idea di “socialismo in un solo Paese” e ci si richiamava ancora molto all’internazionalismo e alla “rivoluzione permanente” a livello mondiale. Ecco così che la celebre frase di Marx – divenuta motto della Russia bolscevica e poi dell’Urss – appariva sul retro delle banconote dei tagli più alti (100, 250, 500, 1000, 5000, 10.000 rubli) in varie lingue, tra cui l’italiano (in quelle da 1, 2, 3, 15, 30, 60 rubli la scritta era invece solo in russo). Interessante notare che c’era un piccolo refuso, con l’articolo che appariva attaccato alla parola precedente: “Proletari di tuttii Paesi, unitevi!”
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