Come la donne russe anticamente lottavano contro la violenza domestica

“Ragazza contadina”, dipinto del 1929 del pittore Filipp Maljavin (1869-1940)

“Ragazza contadina”, dipinto del 1929 del pittore Filipp Maljavin (1869-1940)

Dominio pubblico
Picchiare la moglie per farle pagare le sue “colpe” o anche, come dicevano allora, per “raddrizzarle il cervello”, era considerata, nella Russia del passato, una pratica non solo ammissibile, ma anche utile. Per difendersi, la donna cominciava a cercare protezione, ed aveva alcuni metodi consolidati per provare a liberarsi, una volta per tutte, del coniuge violento

Nel 1647 una donna di nome Avdotja denunciava suo marito Nikolaj: “Povera me, mi ha legato i piedi, mi ha sospeso [alla trave del tetto], mi ha picchiata e torturata; e così, sospesa in aria, sono rimasta per tutto il giorno”. I casi di maltrattamento della moglie non erano rari. Il “Domostroj”, il libro del XVII secolo di regole e consigli per la vita quotidiana, conteneva apposite indicazioni su come la donna doveva essere punita: “Puniscila, quando siete soli; e quando l’hai punita, le devi parlare, devi farle dei regali e dimostrarle il tuo affetto”.

“Raddrizzare” o seviziare?

La violenza domestica in Russia proliferava. Purtroppo, in quel periodo, anche in Europa, come osserva la storiografa svizzera Nada Boškovska, c’erano parecchi libri che raccomandavano al marito di “punire” e “raddrizzare” la moglie.

“Ha bevuto troppo”, dipinto del 1929 di Ivan Gorokhov (1863-1934)

La maggioranza dei casi di violenza domestica era dovuta ai mariti in stato di ubriachezza. Un atamano cosacco di Usman (nell’odierna regione di Lipetsk) spesso denudava sua moglie, la faceva sedere in un campo di ortica, poi la imbrigliava (come un cavallo) e le faceva tirare l’aratro. Samuel Collins, che fu medico dello zar Alessio Mikhajlovich, riferisce di un prete che, dopo aver fustigato sua moglie, le fece indossare una veste intrisa di alcol e le appiccò il fuoco. Un altro sacerdote diverse volte incatenò sua moglie e la torturò con un ferro arroventato.

Le fonti storiche parlano di numerosi casi di uxoricidio e di suicidio delle donne a seguito della violenza domestica. Tuttavia, la violenza restava impunita, se la donna non aveva parenti o la Chiesa non interveniva in sua difesa.

“Non ti faccio entrare!”, dipinto del 1892 del pittore Vladimir Makovskij (1846-1920)

Il più delle volte il tribunale e la Chiesa restituivano al marito la donna, da lui stesso picchiata e seviziata. Come si poteva lottare contro tutto ciò?

Secondo le leggi e le regole della Chiesa, il marito poteva “dare lezioni” alla moglie, ma non lo doveva fare “con rabbia”, né doveva seviziare la donna o mettere in pericolo la sua vita. In Russia di quel periodo “dare una lezione” significava picchiare “leggermente”, mentre provocare lesioni “insopportabili” o “quasi mortali” era un crimine.

Se la donna credeva che il marito la volesse uccidere, andava in tribunale (le fonti storiche sono piene di tali denunce). In tribunale, la donna interveniva direttamente, o poteva essere rappresentata da parenti di sesso maschile.

Come le donne contrastavano la violenza

Se il padre della donna era vivo, o se aveva dei fratelli maschi, era poco probabile che potesse essere malmenata dal marito. Ma annientare una persona, specie per coloro che avevano il potere, era molto facile. Come la donna poteva sopravvivere, se non aveva dei parenti che potessero intervenire in sua difesa?

Fuggire. Il più delle volte la donna tornava a casa dei genitori per chiedere aiuto alla famiglia di origine e presentare denuncia contro il marito. In tal caso nell’istanza veniva specificato che la vita della donna era minacciata dal marito. Facendo riferimento alle minaccia alla vita, si poteva denunciare ufficialmente il marito e chiedere il divorzio. Tuttavia, nel 1646 la moglie di un nobile di Putyvl (nell’odierna Ucraina) fuggì all’estero, in Lituania, lasciando sua madre e suoi figli, e ritornò a casa soltanto dopo aver saputo che suo marito era morto.

Suore del convento di San Giovanni Teologo a Sura, inizio XX secolo

Ripararsi in un convento. Spesso la donna chiedeva protezione al vescovo o a una comunità monastica, specie femminile. Molte donne finivano nei monasteri, perché cercavano di salvarsi dalla violenza domestica o perché venivano costrette con la forza a prendere i voti dal marito che voleva sposare un’altra. Insomma, le monache, come nessun altro, capivano quanto fosse dura la vita della donna.

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Accusare il marito di un crimine contro lo Stato. Contro il marito violento, la donna poteva usare un’arma micidiale la formula “Slovo i delo” (“Parola e azione”), cioè, poteva dichiarare che l’uomo stesse complottando contro lo zar o volesse fuggire all’estero. In tal caso, anche se era innocente, l’uomo difficilmente poteva evitare le torture e la morte. L’impresa, però, era molto rischiosa, perché la donna doveva falsificare le prove o trovare qualcuno disposto a testimoniare, anche sotto tortura, che il marito avesse davvero l’intenzione di fuggire all’estero. Se l’inganno veniva smascherato, poi, la donna e tutti coloro che testimoniavano a suo favore venivano giustiziati.

D. Bulgakovskij, “Eco. L’ubriachezza e le sue conseguenze“. Album illustrato con scene di vita quotidiana di persone dedite all’ubriachezza

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Sperare nella Giustizia. Era possibile soltanto se la donna aveva dei soldi (per esempio, quelli che le erano stati lasciati dal padre e non appartenevano al marito), e dei parenti o amici influenti. Altrimenti il tribunale, quasi automaticamente, prendeva una decisione a favore del marito.
Uccidere il marito. Alcune donne liquidavano fisicamente il loro marito. L’omicidio volontario si puniva con la pena di morte: la donna veniva interrata viva, pertanto quasi tutte cercavano di dimostrare la mancanza di dolo. Nel 1629 Agrafena Bobrovskaja, abitante della città di Mtsensk, uccise suo marito con la sciabola di quest’ultimo, mentre l’uomo stava dormendo, dichiarando in seguito di averlo colpito “in maniera non intenzionale, soltanto perché non lo amava”. Questa dichiarazione non sembra molto logica, ma Agrafena insisteva, ripetendo che l’aveva fatto senza dolo e che era affetta da mal caduco (i suoi vicini, tuttavia, dichiararono che in precedenza non avevano visto alcun sintomo della malattia). Come finì la vicenda, non lo sappiamo.

Punizione con il knut [una pesante frusta] di N. Lopukhina. Incisione di Jean-Baptiste Le Prince da un libro del 1766

Nella città di Kozlov, nel 1647, come scrive Nada Boškovska, furono arrestati una certa Akulina e suo genero Sergej, che avevano ucciso il marito della donna, Artemij Kuchenev, gettando il suo cadavere nel fiume. La donna fu denunciata dal suo figliastro, figlio dell’uomo ucciso. Akulina, da parte sua, dichiarò che il marito aveva stuprato una sua figlia avuta dal primo matrimonio, una ragazzina di 8 anni. Successivamente Akulina venne a sapere che Artemij aveva ucciso le sue prime due mogli e aveva corrotto i figli, per questo aveva deciso di ucciderlo. Anche in questo caso non sappiamo come il tutto sia andato a finire.

Violenza domestica nei confronti dell’uomo

È ingenuo pensare che le donne non picchiassero e non uccidessero i loro mariti. La violenza contro l’uomo è un fatto comprovato, anche se, ovviamente, i casi erano molto più rari rispetto alla violenza di cui erano vittima le donne.  

Il marito poteva essere ucciso per impossessarsi della eredità che per legge spettava alla vedova. Nel 1625 la moglie di Dmitrij Eremeev, residente di Beloozero (oggi Belozersk, nella regione di Vologda), tentò di uccidere il marito con un coltello, mentre si stava lavando nel bagno, e poi con un bastone di legno, ma entrambe le volte fallì. In tribunale la donna dichiarò che aveva momentaneamente “perso la ragione”. Fu soltanto fustigata.

D. Bulgakovskij, “Eco. L’ubriachezza e le sue conseguenze“. Album illustrato con scene di vita quotidiana di persone dedite all’ubriachezza

Un militare di Ustjug (oggi Velikij Ustjug), appartenente al corpo degli strelizzi, denunciò la moglie, perché aveva cercato di strangolarlo mentre dormiva e successivamente aveva minacciato di ucciderlo con la stregoneria. La moglie di un iconografo di Kursk si mise in combutta con due uomini che uccisero suo marito. Sappiamo che gli assassini furono catturati. Tuttavia, la maggioranza delle “aspiranti vedove” preferiva non uccidere, ma calunniare il marito, accusandolo di crimini contro lo Stato o di stregoneria, predisponendo in anticipo dei relativi “documenti” e dei “testimoni” per sbarazzarsi di lui.

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