“La contadina addormentata”, 1917, Zinaida Serebrjakova
Collezione privataMai indossare una sola scarpa o un solo orecchino, né farsi una sola treccia, e mai spaiare gli oggetti. Secondo la superstizione russa, una donna che non osservava queste regole poteva rimanere nubile, mentre se era già sposata rischiava di restare vedova.
La solitudine di una donna in un villaggio russo era una delle condizioni più difficili, perché una famiglia contadina ha bisogno di almeno due persone per sopravvivere nel corso dell’anno. Eppure c’erano molte donne sole. Come vivevano nelle campagne russe dal XVI secolo fino alla fine del XIX secolo?
“Ritratto di A. I. Sychkova, madre dell’artista”, 1898, Fedot Sychkov
Museo di Belle Arti della MordoviaEssere vedove (in russo: vdóvy; al singolare vdová) voleva dire, come si diceva nelle campagne russe, “morire da vive”. L’età adulta nel mondo dei contadini russi arrivava per uomini e donne solo con il matrimonio. Una donna adulta che perdeva il marito a causa di una guerra, di una malattia o di un incidente assumeva immediatamente uno status diverso, dal punto di vista legale, economico, sociale e rituale.
Dopo la morte del marito, la vedova doveva portare il lutto più a lungo che per qualsiasi altro parente; fino a un anno. Durante questo periodo, indossava degli abiti a lutto (detti “kruchinnye”, dalla parola “kruchína”: “afflizione”; “struggimento”) di colore bianco ma con con una striscia rossa ricamata lungo i bordi. A quel tempo una donna aveva diversi cambi di abbigliamento “kruchinnyj”: per la casa, per andare al villaggio, per la chiesa.
Dove viveva la vedova? Se aveva vissuto con il marito per meno di un anno e non avevano avuto figli, o se avevano solo bambine, una donna tornava a casa dei genitori. Una vedova con figli maschi andava invece presso la famiglia del suocero, dove in genere non era particolarmente amata e rispettata. Ma nessuno la tratteneva con la forza, e c’erano casi in cui le vedove se ne andavano, lasciando i figli alle cure della famiglia del defunto marito.
Le donne di età superiore ai 40 anni, vedove e senza figli, andavano a vivere da sole. Esse, come tutte le vedove in generale, erano assistite dalla comunità, che passava loro del denaro. Si riteneva che vedove fossero come gli orfani; ed era consuetudine aiutarle come si faceva con chi aveva perso i genitori. Amici e vicini davano una mano alle vedove, soprattutto a quelle senza figli o con bambini piccoli, a tagliare legna e sverze per l’inverno, a prendere l’acqua, a mietere e a macinare il grano. E nel villaggio era un peccato terribile angariare le vedove, soprattutto quelle con figli. Chi offendeva le vedove veniva punito severamente.
“Le vittime dell’incendio”, 1871, Illarion Prjanishnikov
Museo di Belle Arti di NovosibirskAnche se la vedova rimaneva sola, secondo le leggi russe aveva sempre diritto a una parte della proprietà. Quale parte dipendeva dal numero di anni vissuti insieme al marito. Una vedova anziana riceveva i beni del marito e una casa (o addirittura un podere, se la famiglia era benestante). Per volontà del marito, o per consuetudine, se il marito non aveva fratelli la vedova spesso ereditava anche beni immobili e imprese commerciali (che potevano essere anche di proprietà dei contadini), di cui poi disponeva a proprio nome. Ecco perché nella Russia pre-rivoluzionaria c’erano così tante vedove “imprenditrici”.
Una vedova che viveva con i figli e gestiva la propria casa era chiamata “bolshúkha” e godeva del rispettato status di madre di famiglia. Partecipava all’assemblea del villaggio in quanto proprietaria, e aveva diritto di voto. Una donna di questo tipo poteva invitare un uomo solo (e non solo un vedovo) a trasferirsi a casa sua e riprendere marito, e la cosa che non era affatto considerata vergognosa. Poteva anche vivere da sola ed essere supportata dai suoi figli. Nel villaggio, il lavoro duro era molto apprezzato, e sapendo che gestire una proprietà è un compito non semplice, le famiglie forti erano ben viste.
In ogni caso, dopo un anno di vedovanza, una donna, soprattutto se giovane e senza figli, poteva risposarsi. Cominciava a pensare a questo subito dopo la morte del marito. Per esempio, c’era l’usanza scaramantica di non abbottonare il colletto della camicia del defunto, o di non allacciargli la cintura, per potersi risposare il prima possibile. Le vedove potevano risposarsi anche all’età di 40 o 50 anni. Tuttavia, se una donna si sposava per la seconda volta, non c’era il devichnik (la festa di addio al nubilato) e la sposa andava alla festa di nozze a viso scoperto. In questi matrimoni non c’era dote, né “svadebnyj poezd” (il corteo con cui il fidanzato andava a prendere la futura sposa), né grandi festeggiamenti: si riunivano solo i parenti più stretti.
La sposa di Cristo, 1913, Mikhail Nesterov
Galleria Statale d'Arte della Regione del LitoraleNaturalmente, c’erano anche ragazze la cui vita familiare non decollava. Ad esempio, i genitori consideravano sconveniente far sposare la figlia minore prima della maggiore, e mentre la figlia maggiore cercava uno sposo e partecipava alle feste, la minore non iniziava nemmeno il processo, e rimaneva “v devkakh” (“ragazza”; “nubile”). Naturalmente, c’erano anche alcune ragazze che semplicemente non riuscivano a trovare un’anima gemella di loro gradimento. La società contadina le trattava in modo molto duro.
Quelle che erano rimaste nubili venivano chiamate con una serie di nomignoli insultanti del tenore di “zitella” o peggio: “vekovúkha”, “odnokosok”, “sedokosaja”, “perespelok”. Una ragazza del genere poteva anche essere portata in giro per il villaggio dai genitori su una slitta, al grido di: “Nadolba, nadolba! Chi vuole una nadolba?”. Non era bello: con la parola “nádolba” si indicava un “palo” singolo che spuntava dal terreno. Se si trovava un interessato e la famiglia era d’accordo, si poteva già “stringere un patto” e sposarsi il giorno dopo.
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Rimanere una “vekovukha” era considerata una grande disgrazia nel villaggio: si riteneva che una donna del genere non avesse realizzato il suo potenziale di fertilità. Neppure la zoppia, lo strabismo o la gobba erano considerati un ostacolo al matrimonio.
Se una ragazza superava i 25 anni di età e non si sposava, i giovani non la invitavano più ai loro incontri e le era vietato indossare gli abiti da fanciulla: diventava una “devka-nerjadikhaja”; una “ragazza sciatta”. I suoi abiti erano ora di colore scuro, come quelli indossati dalle vedove e dalle donne anziane. La “vekovukha” di solito viveva separata dalla famiglia in un edificio speciale, dove aveva le sue faccende da sbrigare.
Le vedove e le vekovukhi, nonostante la loro posizione un po’ svantaggiata, erano considerate nel villaggio come portatrici di purezza corporea e spirituale. In quanto tali, svolgevano molte importanti funzioni cerimoniali, principalmente legate al passaggio all’altro mondo. In quanto simboli del vuoto e della non-coppia, le vedove e i vedovi non partecipavano a matrimoni, nascite e battesimi, ma partecipavano ai riti funebri e al lavaggio dei morti, vegliavano il corpo fino al funerale e in generale avevano un ruolo di primo piano nelle tradizioni funerarie.
“Rituale prima dell’aratura”, 1876, Grigorij Mjasoedov
Museo Russo (San Pietroburgo)Un altro “lavoro” importante, riservato alle vedove e alle zitelle era l’opákhivanie, un rituale che precedeva l’aratura. Anche se, al contrario, il rituale di fertilità con l’aratro era svolto da una donna incinta. L’opakhivanie doveva essere eseguita dalle donne simbolicamente “sterili” nel buio della notte, in modo che la terra fosse fertile al sopraggiungere del giorno.
Molte vekovukhi e vedove, dopo aver trascorso diversi anni in questa condizione, iniziavano in età avanzata a praticare la medicina tradizionale e lo znákharstvo (la pratica di guaritrice). Ma nelle campagne russe c’erano anche donne che decidevano fin da bambine di vivere da sole.
“La guaritrice”, Firs Zhuravlev
Museo regionale d'arte di KalugaLEGGI ANCHE: Le cure e le medicine più strane usate tradizionalmente dai contadini russi
“Vecchia contadina con il bastone da passeggio”, 1830, Aleksej Venetsianov
Galleria Tretjakov“Cherníchki” erano chiamate le ragazze che avevano scelto non lo stile di vita familiare, ma quello del servizio a Dio. “Chernichka” viene dalla parola “сhernéts” che indica un monaco o novizio appartenente al clero nero (cioè con vincolo del celibato). Per diventare una “chernichka” una ragazza doveva dichiarare, subito dopo aver raggiunto l’età del matrimonio, quando veniva invitata alle feste e ai raduni dei giovani del villaggio, di non volersi sposare. Ciò poteva essere dovuto alla particolare forza della fede della ragazza o a un voto fatto dai suoi genitori.
Dichiarando questo desiderio, la ragazza doveva rinunciare a tutti i suoi colorati abiti da fanciulla e indossare abiti scuri, come una vekovukha o una vedova. La treccia le veniva tagliata simbolicamente e in quel momento pronunciava la frase: “Come i miei capelli non si riattaccheranno, io non tornerò alla mia vita da nubile”.
La famiglia costruiva per la chernichka una stanza separata nel cortile (era chiamata, come quella dei monaci, “kelija”), dove viveva, faceva le faccende e mangiava solo cibo quaresimale. Le funzioni principali della chernichka nel villaggio erano i riti funebri. Queste donne erano invitate a leggere il Salterio per i morti e a vestire e lavare i corpi dei defunti. A differenza, ad esempio, delle vekovukhi, le donne mirtillo erano trattate con particolare rispetto e riverenza, perché una donna del genere sacrificava la sua fertilità e le sue funzioni vitali come sacrificio al Signore, e trasformava la sua vita in un servizio.
La chernichka si guadagnava da vivere con le ricompense che le pagavano i parenti dei defunti. Queste donne ricevevano in dono anche cibo, stoffe e altro. Ma la cosa principale era che aiutavano i sacerdoti e i diaconi in chiesa. Conoscevano bene l’ordine delle funzioni e i testi delle preghiere. Potevano anche insegnare ai bambini del villaggio a leggere e scrivere. Raggiunta l’età matura, potevano diventare suore a tutti gli effetti. Nell’antica Russia si credeva che solo le donne senza peccato che si erano dedicate al Signore fin dalla più tenera età potessero essere vere monache.
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