“La volontà incrollabile del Führer è quella di radere al suolo Mosca e Leningrado per sbarazzarsi completamente della popolazione di queste città, che altrimenti saremmo poi costretti a sfamare durante l’inverno…”, così scriveva nel suo diario il Capo di Stato Maggiore dell’Oberkommando des Heeres tedesco Franz Halder l’8 luglio 1941, nelle primissime fasi dell’operazione Barbarossa. La rapida avanzata dell’Heeresgruppe Nord attraverso la regione baltica portò al fatto che in estate il nemico si avvicinò a Leningrado. E dalla Carelia si stava avvicinando alla città anche l’esercito finlandese.
L’8 settembre 1941, le truppe tedesche presero la città di Shlisselburg, sulle rive del Lago Ladoga, chiudendo in tal modo l’anello intorno a Leningrado via terra. Nella seconda città più grande dell’Unione Sovietica, bloccata ora su tutti i lati, rimasero intrappolati circa mezzo milione di soldati dell’Armata Rossa, quasi tutte le forze navali della Flotta del Baltico e fino a tre milioni di civili.
Tuttavia, il successivo tentativo di prendere d’assalto la città fallì. Leningrado a metà settembre si era trasformata in una vera fortezza. Nelle sue immediate vicinanze erano stati scavati oltre 600 km di fossati anticarro e innalzate barriere metalliche, costruiti 15 mila fortini e bunker, 22 mila punti di tiro, 2.300 posti di comando e di osservazione. Direttamente a Leningrado, erano stati organizzati 4.600 rifugi antiaerei, capaci di accogliere fino a 814 mila persone. L’intero centro della città era stato coperto con reti mimetiche per proteggersi dagli aerei nemici.
L’unico sottile filo che collegava la Leningrado assediata con il “continente” era il corso d’acqua attraverso il Lago Ladoga, la cosiddetta “Doróga zhizni”; la “Strada della Vita”. Fu lungo di essa che proseguirono la consegna del cibo e l’evacuazione della popolazione.
Volendo chiudere quest’ultima via di comunicazione, i tedeschi cercarono di sfondare sul fiume Svir, dove speravano di collegarsi con le truppe finlandesi. L’8 novembre, presero la città di Tikhvin e fu così interrotta l’unica ferrovia lungo la quale i carichi per Leningrado venivano consegnati alla sponda orientale del Lago Ladoga. Ciò portò a una diminuzione dei già scarsi rifornimenti per i residenti della città. Tuttavia, grazie alla resistenza ostinata dell’Armata Rossa, i piani del nemico non si avverarono: Tikhvin venne riconquistata dai sovietici un mese dopo.
Ma i rifornimenti limitati per via aerea e attraverso il Lago Ladoga non potevano certo coprire le esigenze di una metropoli così grande. I soldati in prima linea ricevevano 500 grammi di pane al giorno, i lavoratori fino a 375 grammi e le persone a carico e i bambini solo 125 grammi ciascuno. Con l’inizio del rigido inverno 1941-1942, a Leningrado iniziò una carestia di massa. “Tutto è stato mangiato: cinture e suole di cuoio comprese; in città non è rimasto un solo cane o gatto, per non parlare di piccioni e corvi. Non c’era elettricità, le persone affamate ed esauste andavano alla Neva per prendere l’acqua, spesso cadendo e morendo lungo la strada. I corpi non venivano più rimossi, erano semplicemente lasciati a ricoprirsi di neve. La gente moriva a casa a famiglie intere, a interi appartamenti”, ha ricordato Evgenij Aleshin.
Alcuni non si limitavano agli animali e agli uccelli. L’Nkvd registrò più di 1.700 casi di cannibalismo. E ce ne sono stati ben di più di non ufficiali. I cadaveri venivano rubati da obitori e cimiteri, o portati direttamente a casa dalle strade. C’erano anche omicidi. In un verbale del dipartimento dell’Nkvd per la Regione di Leningrado del 26 dicembre 1941 si legge: “Il 21 dicembre Vorobjov V.F. 18 anni, disoccupato, ha ucciso con un’ascia la nonna Maksimova, 68 anni. Il cadavere è stato tagliato a pezzi, il fegato e i polmoni sono stati bolliti e mangiati. Una perquisizione nell’appartamento ha trovato parti del cadavere. Vorobjov ha confessato di aver commesso l’omicidio motivato dalla fame. È stato riconosciuto sano di mente dall’esame psichiatrico”.
Nella primavera del 1942, Leningrado iniziò a riprendersi gradualmente dall’inverno da incubo appena vissuto: nei sobborghi non occupati, furono create fattorie sussidiarie per fornire ai cittadini le verdure; la situazione con il cibo migliorò, la mortalità diminuì e il trasporto pubblico era ora parzialmente operativo. Un evento importante che dette fiducia alla popolazione fu l’arrivo in città di un convoglio partigiano dalle regioni occupate di Novgorod e Pskov. Per centinaia di chilometri, i partigiani marciarono segretamente attraverso le retrovie delle armate tedesche per sfondare la linea del fronte verso Leningrado il 29 marzo. Su 223 carri, ai residenti della città vennero portate 56 tonnellate di farina, grano, carne, piselli, miele e burro.
L’Armata Rossa non smise mai di cercare di entrare in città fin dai primi giorni dell’assedio tedesco. Tuttavia, tutte e quattro le principali operazioni offensive condotte nel 1941-1942 finirono con un fallimento: non c’erano abbastanza uomini, risorse, ed esperienza di combattimento. “Siamo avanzati il 3-4 settembre da Chjornaja Rechka verso Kelkolovo”, ricordò Chipyshev, vice comandante del 939º reggimento, che prese parte all’Offensiva di Sinjavino del 1942, “senza il supporto dell’artiglieria. I proiettili inviati per i cannoni non erano adatti a quelli da 76 millimetri che avevamo in dotazione. E non avevamo granate. Le mitragliatrici dei bunker tedeschi non furono annientate e così la fanteria subì enormi perdite ”. Tuttavia, questi attacchi non passarono senza lasciare traccia nel nemico: la pressione costante delle truppe sovietiche mise a dura prova l’Heeresgruppe Nord tedesco, privandolo di spazio per manovra.
Dopo la sconfitta delle truppe tedesche a Stalingrado, l’iniziativa bellica iniziò a passare gradualmente dalla parte dell’Armata Rossa. Il 12 gennaio 1943, il comando sovietico lanciò l’operazione offensiva “Iskra” (ossia “Scintilla”), che alla fine si concluse con un successo. Le truppe sovietiche liberarono la città di Shlisselburg e la costa meridionale del Lago Ladoga, ripristinando le comunicazioni terrestri di Leningrado con la “terraferma”.
“Il 19 gennaio 1943 stavo per andare a letto, quando alle undici ho sentito che la radio sembrava mettersi a parlare”, ha ricordato l’infermiera Ninel Karpenok: “Mi sono avvicinata, guardo, e sì, dicono: ‘Ascoltate il dispaccio’. Ascoltiamo. E all’improvviso hanno cominciato a dire che avevano rotto il blocco. Wow! Siamo saltati fuori. Avevamo un appartamento comune, quattro stanze. E siamo saltati tutti fuori, abbiamo gridato, pianto. Erano tutti così felici: avevamo sfondato il blocco!”
Un anno dopo, durante l’operazione “Janvàrskij grom” (ossia: “Tuono di gennaio”) le truppe sovietiche, avendo respinto il nemico a 100 km da Leningrado, rimossero finalmente ogni minaccia per la città. Il 27 gennaio 1944 venne ufficialmente dichiarato il giorno della revoca dell’assedio, e venne festeggiato da 24 raffiche di 324 cannoni. Durante gli 872 giorni che durò l’assedio, per fame, freddo, bombardamenti di artiglieria e raid aerei, secondo varie stime, morirono da 650 mila a un milione e mezzo di leningradesi.
“La ragazza d’autunno”, il film sulla Leningrado dell’immediato dopoguerra consigliato da Obama