Come i cinesi aiutarono i bolscevichi a mantenere il potere in Russia

Sputnik
Furono molti i soldati dell’Armata Rossa provenienti dalla Cina che presero parte alla Guerra civile. Molto amati dai loro comandanti per la dedizione e la disciplina, erano invece i più odiati in assoluto dai Bianchi, che non li facevano prigionieri, ma li fucilavano sul posto

“I cinesi sono dei duri, non hanno paura di niente. Anche se un loro fratello muore in battaglia, non battono ciglio…Quando capiscono di avere un nemico, per questo nemico sono guai, perché i cinesi lo combatteranno fino all’ultimo”, scrisse il comandante sovietico Iona Yakir (1896-1937) in “Vospominanija starogo krasnoarmejtsa” (“Memorie di un vecchio soldato dell’Armata Rossa”).

Più di quarantamila cinesi parteciparono alla Guerra civile in Russia come parte dell’Armata Rossa. Ma perché presero parte a un conflitto intestino in una terra straniera?

Sotto le insegne della Rivoluzione

Nel 1917, fino a duecentomila cinesi vivevano in Russia, impegnati in lavori pesanti nell’industria, nell’agricoltura e nell’edilizia. Con l’aiuto di questa manodopera a basso costo, reclutata in Cina, il governo zarista cercò di risolvere il problema della carenza di manodopera causato dalla Prima guerra mondiale.

Tuttavia, con l’avvento al potere dei bolscevichi e l’inizio della Guerra civile, i cinesi in Russia si trovarono in una posizione difficile. In un Paese immerso nel caos, non c’erano opportunità per loro di guadagnarsi da vivere. Quando la Siberia, i porti del nord e quelli sul Pacifico caddero sotto il controllo dei bianchi e degli interventisti stranieri, la strada del ritorno in patria risultò sbarrata per la popolazione cinese della Russia centrale. E non tutti, comunque, volevano tornare in Cina, visto che il Paese stava attraversando il cosiddetto “Periodo dei signori della guerra” ed era dilaniato dagli scontri tra varie cricche politico-militari.

L’unico modo per il proletariato cinese, che si era raccolto nelle grandi città, di sfamare se stesso e le proprie famiglie, nonché di guadagnare soldi per il viaggio di ritorno, rimase arruolarsi nell’Armata Rossa. “I cinesi erano molto attenti alla paga. Erano pronti a rischiare la vita, ma pretendevano di essere pagati senza ritardi e di essere ben nutriti”, ha ricordato Jakir.

Ma il denaro non era l’unico motivo per cui migliaia di cinesi si radunarono sotto le bandiere rosse. L’ideologia della rivoluzione socialista e la costruzione del comunismo attiravano molti di loro. “La Russia zarista e la Cina, dove regnava la dinastia Manciù-Qing, non erano diverse l’una dall’altra: in entrambi i Paesi i ricchi vivevano felici, e i poveri pativano la fame e il freddo”, ha scritto il soldato Chen Bo-chuan nel suo libro di memorie “Dni i nochi v Sibiri” (“Giorni e notti in Siberia”).

I bolscevichi erano ben consapevoli dello stato d’animo degli immigrati cinesi e svolsero con successo un’attiva opera di propaganda, proponendo di costruire insieme un nuovo mondo più giusto. Giornali in cinese iniziarono a essere pubblicati nelle grandi città, con testate come: “La Grande Uguaglianza”, “La Stella comunista”, “Il lavoratore cinese” e simili. La comunità cinese fu piacevolmente sorpresa nell’apprendere (grazie agli sforzi dei bolscevichi) che Lenin un tempo aveva condannato la repressione da parte delle grandi potenze internazionali della Ribellione dei Boxer del 1900.

Di conseguenza, decine di migliaia di volontari cinesi si unirono ai ranghi dell’Armata Rossa. Alcuni speravano di guadagnarsi un pezzo di pane, altri sognavano di poter così rientrare patria, altri erano davvero intrisi dell’idea di una rivoluzione mondiale, e altri ancora non erano contrari a trarre vantaggi personali dalla confusione che regnava in Russia.

La Guardia Rossa

I soldati cinesi si guadagnarono rapidamente la reputazione di essere tra i più disciplinati ed efficienti dell’Armata Rossa. E poi, anche se avessero voluto, non potevano disertare: nascondersi tra una popolazione somaticamente differente in un Paese straniero era pressoché impossibile per loro, e quindi la loro lealtà non sollevava dubbi. “I combattenti cinesi hanno sempre trattato i loro doveri in modo estremamente onesto e coscienzioso e quindi si sono guadagnati grande fiducia da parte del comando”, ha scritto il soldato Zhang Tzu-hsuan nelle sue memorie “Plechom k plechu” (“Spalla a spalla”).

“Tutti loro sono dei combattenti coraggiosi, ma non possono sopportare una cosa: il fulgore della sciabola”, ha scritto Jakov Nikulikhin (1899-1938) dirigente comunista nel suo libro “Na fronte grazhdanskoj vojny” (“Sul fronte della Guerra civile”): “I cosacchi ormai erano a conoscenza di questo fatto, e nelle giornate di sole, prima dell’attacco, agitavano le loro spade nell’aria. Questo causava il panico tra i cinesi. Ma, in generale, i cinesi dell’Armata Rossa si sono dimostrati coraggiosi; non si ritiravano mai e combattevano in modo forsennato”.

I Bianchi odiavano particolarmente i cinesi rossi, insieme ad altri stranieri dell’Armata Rossa: lettoni, estoni, ungheresi. Li consideravano “Selvaggi, infedeli e spie tedesche” e, se cadevano prigionieri, preferivano sparar loro sul posto.

Dalla Polonia all’Oceano Pacifico

I quarantamila soldati cinesi non agirono mai come una forza unitaria. Distaccamenti di non più di 2-3 mila uomini furono creati in tutto il Paese e combatterono come parte di unità più grandi dell’Armata Rossa. I cinesi prestarono servizio anche nella 25ª Divisione fucilieri del leggendario comandante rosso Vasilij Chapaev, e persino nella guardia personale di Lenin.

Una delle unità rosse più affidabili negli Urali e in Siberia era il 225° Reggimento internazionale cinese, sotto il comando di Zhen Fuchen. Dopo la sua morte, il 29 novembre 1918, fu insignito postumo dell’Ordine della Bandiera rossa, e Lenin incontrò personalmente la sua vedova e i suoi figli.

Circa 500 cavalieri cinesi prestarono servizio nella migliore formazione militare dei bolscevichi: la 1ª Armata di cavalleria di Semjon Budjonnyj. Durante la Guerra sovietico-polacca, insieme a parte dell’esercito, furono tagliati fuori dal grosso dell’Armata Rossa dal contrattacco del nemico sulla Vistola e furono costretti a ritirarsi in territorio tedesco, dove furono internati. I tedeschi tenevano separati i cinesi dai russi, facendo pressioni affinché passassero al loro servizio, ma rifiutarono e presto tornarono in Russia insieme agli altri.

Tra i cinesi rossi nell’Estremo oriente della Russia, uno dei distaccamenti partigiani più famosi era quello del comunista San Di-wu, che combatté con successo contro le truppe cosacche bianche locali, gli invasori giapponesi e americani, nonché i banditi cinesi, gli Honghuzi. Lo stesso leader si distinse per un grande coraggio, andò al corpo a corpo più di una volta, venne ferito quattro volte e riuscì persino a far deragliare una locomotiva a vapore americana.

C’erano però anche cinesi che combatterono dalla parte dei Bianchi. Ma ci furono casi in cui, avendo trovato al fronte come nemici  i loro connazionali dell’Armata Rossa, senza esitazione passarono dalla loro parte.

A difesa della disciplina

La ferrea disciplina dei soldati cinesi si manifestò non solo in battaglia. La diligenza e l’obbedienza incondizionata agli ordini erano particolarmente utili per eseguire azioni ed esecuzioni punitive. Dove i soldati russi potevano indietreggiare, i cinesi agivano senza dubbi e senza emozioni.

Non tutti erano comunisti spinti solo dall’odio di classe. Molti trattavano le battaglie con il nemico borghese o l’esecuzione dei contadini e degli operai ribelli come la stessa cosa; come un lavoro di routine per il quale ricevevano uno stipendio.

La poetessa Zinaida Gippius (1869-1945), che viveva a Pietrogrado (oggi San Pietroburgo) prima della sua fuga dalla Russia sovietica alla fine del 1919, scrisse nel suo diario: “Sapete cos’è la cosiddetta ‘carne cinese’? Ecco cos’è: i cadaveri delle Guardie Bianche giustiziate, che vengono dati in pasto agli animali del Giardino Zoologico… Le esecuzioni le fanno i cinesi. Sia qui che a Mosca. Ma quando fanno le esecuzioni, i cinesi non mandano via tutti i cadaveri, ma quelli più giovani se li tengono, li macellano e li vendono come carne di vitello. Il dottor N. ha comprato un pezzo di lesso e ha riconosciuto un osso umano…”.

“Un rapido attacco degli incursionisti del 1° Battaglione mise in rotta i cinesi”, ricordò l’ufficiale bianco Anton Turkul (1892-1957): “Ne catturammo circa trecento. Molti avevano alle dita fedi d’oro sottratte a chi avevano ucciso, e in tasca portasigarette e orologi, anche quelli rubati. Quei carnefici asiatici della Cheka, con la loro puzza di topo, i capelli di feltro nero, le loro facce scure e piatte, avevano fatto del male ai nostri. Li uccidemmo immediatamente tutti e trecento.”

Dopo la guerra

Con la fine della Guerra civile, i cinesi continuarono a prestare servizio nei ranghi della polizia, dell’Armata Rossa e dei servizi segreti sovietici. Combatterono il banditismo, e sorvegliarono le vie di consegna del cibo per le province affamate durante la carestia di massa del 1921-1922, che causò la morte di 5 milioni di persone.

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Centinaia di cinesi scelsero di rimanere per sempre nell’Unione Sovietica. Qui si sposarono con donne russe e andarono a lavorare nell’industria e nell’agricoltura. Per esempio, Cha Yan-chi, dopo aver studiato come agronomo, sviluppò attivamente la coltivazione del riso nel Caucaso settentrionale.

La maggior parte dei cinesi rossi però tornò in patria. Con una vasta esperienza di combattimento e un addestramento specializzato, tornarono a casa per aiutare Mao Tse-Tung a vincere la sua Rivoluzione, e presto divennero il nucleo fondante del Partito Comunista Cinese.


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