Perché Stalin deportò con la forza intere etnie all’interno dell’Urss?

Foto d'archivio; Legion media; Russia beyond
La sua fu la continuazione di una politica utilizzata da secoli in Russia, tesa ad aumentare il potere centrale e ad evitare spinte centripete. Ma certo lui la portò a livelli mai visti prima, quanto a numeri e distanze

Milioni di persone caddero nel vortice delle repressione e delle deportazioni interne nell’Urss, tra gli anni Trenta e Cinquanta. I loro figli e nipoti sono ancora profondamente colpiti da questi eventi.

Quanto quelle ferite siano ancora aperte è dimostrato anche dal successo di due recenti bestseller dell’autrice di origine tatara Guzel Jakhina (1977-), una nuova stella nel firmamento della letteratura russa. Entrambi i libri toccano il tema della deportazione dei popoli e di quale tragica traccia abbia lasciato nel destino personale dei singoli e in quello collettivo di interi gruppi etnici.

L'attrice Chulpan Khamatova interpreta Zuleikha nella serie tv ispirata al romanzo di Guzel Jakhina

Il romanzo di debutto della Jakhina, “Zuleika apre gli occhi” (in russo: “Зулейха открывает глаза”; “Zulejkhà otkryvàet glazà”), uscito nel 2015, ha avuto un incredibile successo, è stato tradotto in 30 lingue (tra cui l’italiano; è uscito, nella traduzione di Claudia Zonghetti, nel 2017 da Salani; con nuova edizione nel 2020) e in Russia ne sono già stati tratti uno spettacolo teatrale e una serie tv in 8 puntate. Il libro descrive la deportazione dei kulakì, i contadini ricchi da un villaggio tataro negli anni Trenta. Tutti i loro beni, provviste e bestiame vengono confiscati dai bolscevichi. Coloro che resistono vengono spesso fucilati, mentre altri, privati delle loro case, vengono trasportati su treni stracarichi lontano dai loro villaggi natii, nella taiga siberiana. Lì, da zero, devono costruire un insediamento sovietico esemplare, dove ci sarà lavoro, ordine, nessuna moschea o chiesa e nessun Dio e, in generale, secondo lo Stato, una vita migliore. 

Capanne di sfollati

Il secondo romanzo, “Deti moì” (“Дети мои”; ossia “Figli miei”; non ancora tradotto in italiano) descrive il dramma dei tedeschi del Volga. Erano arrivati in Russia ai tempi dell’Impero russo, su invito di Caterina II, nel XVIII secolo, e nei secoli erano riusciti a creare intere città, dove vivevano con il loro stile di vita tipico, sulle rive del Volga. Ma il governo sovietico li deportò nelle aspre steppe del Kazakistan. I villaggi tedeschi deserti nel romanzo appaiono davanti al lettore in uno stato deplorevole: “Il sigillo della devastazione e una tristezza lunga ormai molti anni si è impressa sulle facciate delle case, delle strade e sui volti”.

Perché avvennero queste deportazioni interne?

La deportazione dei popoli è riconosciuta come una delle forme di repressione politica di Stalin, nonché una delle forme di rafforzamento e centralizzazione del suo potere personale. L’obiettivo era quello di mescolare la popolazione di quelle zone dove c’era una grande concentrazione di rappresentanti di determinate etnie, che conducevano la loro vita, parlavano, educavano i bambini e pubblicavano giornali nella propria lingua.

Joseph Stalin

Molti di questi luoghi godevano di diversi gradi di autonomia: dopotutto, molte repubbliche e regioni si formarono agli albori dell’Unione Sovietica proprio su basi etniche.

Grande esperto delle deportazioni sovietiche, lo storico Nikolaj Bugaj (1941-) definisce l’approccio di Stalin e del suo braccio destro Lavrentij Berija alla deportazione come “un mezzo per risolvere i conflitti interetnici”, e “sopprimere ogni manifestazione di insoddisfazione per il regime antidemocratico e totalitario”.

E sebbene Stalin, come ha scritto Bugaj, annunciasse a parole l’“osservanza obbligatoria dell’internazionalismo”, riteneva importante eliminare tutte le autonomie etniche che potevano potenzialmente andare verso tensioni centripete, per prevenire fin dal nascere ogni possibilità di opposizione al potere centralizzato.

Baracche

Questo metodo era già stato utilizzato molte volte in Russia sin dai tempi antichi. Ad esempio, quando nel 1510 il principe di Mosca Basilio III annetté Pskov ai suoi possedimenti, mandò in esilio tutte le famiglie influenti da Pskov. Ricevettero beni in altre città delle terre russe, ma non poterono mai far ritorno nella loro città natale, in modo da non poter, sobillando il popolo, rinfocolare la conflittualità nei confronti del governo di Mosca.

Basilio aveva ereditato questo metodo da suo padre, Ivan III, detto il Grande, “l’unificatore delle terre di Russia”. Nel 1478, dopo la vittoria sulla Repubblica di Novgorod, Ivan mise in atto la prima grande deportazione russa della popolazione: esiliò oltre 30 tra le più ricche famiglie di boiardi di Novgorod e confiscò le loro proprietà e le terre. Nuove proprietà furono date loro a Mosca e nelle città della Russia centrale. Alla fine del 1480, più di 7000 persone furono cacciate da Novgorod: boiardi, cittadini benestanti e mercanti con le loro famiglie. Furono fatti stabilire in piccoli gruppi in diverse città: Vladimir, Rostov, Murom, Kostroma, per “dissolvere” l’ex nobiltà di Novgorod nella popolazione della Russia centrale. 

Marfa Boretskaya viene scortata a Mosca da Novgorod

La pratica della deportazione fu usata nella Russia zarista, e successivamente, anche per la soppressione di rivolte locali: ad esempio, dopo le rivolte polacche del 1830 e del 1863, migliaia di polacchi, partecipanti alle rivolte o simpatizzanti, furono esiliati nell’interno della Russia, principalmente in Siberia.

Chi e dove fu reinsediato?

La deportazione in Urss fu enorme: secondo i documenti dell’Nkvd, negli anni Trenta e Cinquanta circa 3 milioni e mezzo di persone lasciarono i loro luoghi di origine. In totale, sono state reinsediate più di 40 etnie, principalmente dalle zone di confine alle aree remote dell’interno.

I primi ad essere deportati furono i polacchi. Nel 1936, 35mila “elementi inaffidabili” dagli ex territori polacchi nell’Ucraina occidentale furono reinsediati in Kazakistan. Nel 1939-1941 più di 200 mila polacchi furono deportati nel Nord, in Siberia e in Kazakistan.

Anche in altri territori di confine ci furono grandi spostamenti di popolazione: nel 1937 più di 171 mila coreani sovietici furono reinsediati in Kazakistan e Uzbekistan dai confini orientali dell’Urss.

Costruzione di nuove baracche

Dal 1937, Stalin perseguì anche una politica sistematica di reinsediamento dei tedeschi. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, poi la loro sorte peggiorò ulteriormente. Molti furono condannati come spie e inviati nei gulag. Alla fine del 1941, circa 800 mila tedeschi erano stati reinsediati nel Paese e, in totale, durante gli anni della guerra, lo furono più di un milione. La Siberia, gli Urali, l’Altaj divennero la loro nuova casa, quasi mezzo milione finirono in Kazakistan.

Il potere sovietico trasferì molti popoli durante la guerra. Un numero enorme venne allontanato dai territori liberati dopo l’occupazione tedesca. Con il pretesto dello spionaggio e della cooperazione con i nazisti, i popoli del Caucaso settentrionale vennero buttati fuori dalle loro terre: decine o centinaia di migliaia di caraci, ceceni, ingusci, balcari, cabardi furono mandati in Siberia e in Asia centrale. Furono accusati di aver aiutato i tedeschi e furono reinsediati anche i calmucchi, oltre a circa 200 mila tatari della Crimea. Inoltre, furono reinsediati anche popoli più piccoli, inclusi turchi mescheti, curdi, greci e persino gli italiani della comunità di Kerch.

Gli interni di una baracca in un villaggio degli Urali

Gli abitanti di Lettonia, Estonia e Lituania resistettero all’adesione all’Urss e organizzarono anche distaccamenti armati anti-sovietici. Questo diede al governo una ragione per disperdere sul territorio i popoli baltici in modo particolarmente duro.

Come era effettuato il reinsediamento

Con la firma del Commissario del popolo per gli Affari interni Lavrentij Berija, vennero redatte istruzioni dettagliate per organizzare il reinsediamento, con indicazioni specifiche per ogni etnia. La deportazione era effettuata dagli organi locali del partito e da speciali chekisti mandati sul posto. Venivano compilati elenchi delle persone da sfollare e preparati veicoli per il trasporto alle stazioni ferroviarie.

Il processo di reinsediamento

Le persone erano costrette a prepararsi in pochissimo tempo: potevano portare con sé le cose di casa, piccole attrezzature domestiche e denaro: in totale, il “bagaglio” per una famiglia non poteva superare il peso di una tonnellata. Quindi, di fatto, dovevano abbandonare molte cose.

Treno di sfollati

Molto spesso, per ogni singola etnia, venivano mandate diverse tradotte con uomini di guardia e personale medico. Sotto scorta, le persone venivano caricate al massimo sui vagoni e portate a destinazione. Secondo le istruzioni, lungo la strada, ai coloni veniva dato il pane e una volta al giorno venivano nutriti con del cibo caldo.

Altre istruzioni descrivevano in dettaglio l’organizzazione della vita nel nuovo posto, negli “insediamenti speciali”. Gli immigrati abili al lavoro venivano coinvolti nella costruzione di caserme e in seguito di abitazioni, scuole e ospedali. Vennero anche create fattorie collettive (kolkhoz) per lavorare i terreni e fattorie. Il controllo e l’amministrazione erano responsabilità degli ufficiali dell’Nkvd. All’inizio la vita dei coloni era difficile, il cibo scarseggiava, le malattie colpivano duro.

Insediamento nelle montagne di Khibiny

Ai popoli reinsediati era proibito lasciare i nuovi territori loro assegnati, pena la reclusione nei campi di lavoro. Il divieto venne revocato e la libertà di movimento nell’Unione fu restituita a queste persone solo dopo la morte di Stalin. Nel 1991, queste azioni delle autorità sovietiche furono dichiarate illegali e criminali e quelle contro alcuni popoli furono persino considerate genocidio.


Poteva un cittadino sovietico muoversi a suo piacimento all’interno dell’Urss? 

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