Come un bimbo italiano salvò un partigiano sovietico

Storia
ANNA ZHURAVLEVA
Dopo l’8 settembre del 1943, alcuni soldati dell’Armata Rossa che erano finiti prigionieri dei nazifascisti ed erano stati spostati nei campi di lavoro in Italia, riuscirono a fuggire e si unirono alla Resistenza. Ne nacquero storie incredibili di coraggio e di libertà

Quando Massimo Eccli, un insegnante di lingua italiana che vive a Mosca, era un ragazzino, suo nonno gli raccontò la storia di un ignoto soldato russo sepolto nel cimitero di San Zeno di Montagna, il paese natale di Massimo, in provincia di Verona, affacciato sul Lago di Garda. La storia lasciò in lui un impatto così profondo che, da grande, ha deciso di scoprire il nome del soldato. Questo è diventato il punto di partenza della ricerca su centinaia di partigiani sovietici che hanno combattuto in Italia.

I risultati dei suoi studi sono diventati il libro “Sovetskie partizany v Italii” (“Partigiani sovietici in Italia”), che rivela una pagina poco conosciuta nella storia della Seconda guerra mondiale e della Resistenza.

Eccli ha dedicato più di dieci anni alla ricerca di informazioni sui soldati russi che hanno combattuto in Italia. Nella prima fase, l’autore del libro si è rivolto all’archivio del Ministero della Difesa della Federazione Russa. Tuttavia, si è reso presto conto che “lavorare su un solo memoriale non era sufficiente, perché esso dava spesso informazioni poco attendibili, soprattutto sul luogo e le data di morte della persona in questione”. Questo lo ha convinto a proseguire le ricerche negli Archivi della Resistenza, dell’Istituto Parri, dell’Istituto Gramsci, del Volksbund e di vari Comuni.

Attraverso i social network, è anche riuscito a contattare i parenti di alcuni soldati e a integrare le loro storie. Grazie a questo scrupoloso lavoro, Eccli ha creato un elenco alfabetico di soldati, molti dei quali erano stati precedentemente dati per dispersi. Ogni voce è una storia unica, che inizia con la data e il luogo di nascita del soldato, racconta a quali battaglie ha partecipato e quali decorazioni ha ricevuto.

Come arrivarono dei soldati russi in Italia?

I soldati russi arrivarono in Italia in diversi modi. Lo storico Mikhail Talalaj nel libro “Russkie uchastniki Italjanskoj vojny 1943-1945: partizany, kazaki, legioniery” (“I partecipanti russi alla guerra in Italia 1943-1945: partigiani, cosacchi, legionari”) scrive che il tema dei partecipanti russi alla Resistenza non fu ampiamente pubblicizzato dopo la guerra a causa del problema del collaborazionismo con la Wehrmacht. Nell’Urss nel novero dei collaborazionisti erano inclusi anche i prigionieri di guerra caduti in mano ai nazisti.

A metà agosto 1941, Stalin firmò un ordine “Sulla responsabilità dei militari in caso di resa e di consegna delle armi al nemico”, che di fatto obbligava a combattere fino alla morte. Si diceva di “distruggere con ogni mezzo” quelli che preferivano arrendersi, anche nelle condizioni più disperate. “Ma, alcuni feriti o altri soldati rimasti circondati che non ebbero il tempo o la forza di suicidarsi, contrariamente al decreto si lasciarono catturare dai tedeschi”, scrive Talalaj. Secondo gli storici, il numero di prigionieri di guerra ammontò a 3-4 milioni di soldati nei primi sei mesi di guerra.

All’inizio, i prigionieri furono massicciamente uccisi dai nazisti. Ma, quando la Germania si rese conto che la fine della guerra non era dietro l’angolo, la tattica cambiò: i prigionieri potevano essere usati per i lavori forzati. Spesso dovettero imparare una nuova specialità: diventavano elettricisti, fabbri, meccanici, tornitori, conducenti di trattori. Gli storici fanno notare che “i prigionieri sovietici costituivano la forza lavoro più importante e redditizia”.

I tedeschi istituirono campi in Italia principalmente per il lavoro forzato nelle imprese e nella costruzione di strade. Tuttavia, dopo il rovesciamento di Benito Mussolini nel 1943 e la firma di un armistizio da parte del nuovo governo con gli Alleati, iniziò lo sbando nel Paese. Le guardie di alcuni campi di prigionia se ne andarono in tutta fretta , lasciandoli incustoditi. Migliaia di prigionieri di guerra sovietici colsero l’occasione per scappare, rifugiandosi in montagna, sparpagliandosi sulle Alpi e sugli Appennini.

Il grido “Papà, papà!”

Massimo Eccli, ha raccontato le storie di alcuni soldati sovietici che riuscirono a fuggire dopo l’8 settembre del 1943. Alcuni di loro si unirono alle unità partigiane. Il comandante di due di questi distaccamenti era Anatolij Tarasenko. La sua storia è notevole per il fatto che la vita gli fu salvata da un bambino italiano.

La storia bellica di Tarasenko era iniziata nel 1941, quando suo fratello morì nelle battaglie vicino a Leningrado. Per vendicarlo, Tarasenko si arruolò nell’Armata Rossa. Un anno dopo, i tedeschi lo catturarono e lo mandarono in un lager in Estonia. Rischiando la vita, fece un tentativo senza successo di scappare, e poi riuscì a scampare alla condanna a morte.

Nel 1943, Tarasenko e i suoi compagni furono spostati in Italia in un convoglio di prigionieri. Poco dopo il passaggio dell’Italia dalla parte degli Alleati, Tarasenko riuscì a fuggire. Insieme ai suoi compagni, Tarasenko si unì a un movimento partigiano a Monterotondo, un punto strategico per il controllo di Roma.

“Gli ex prigionieri partigiani sovietici andarono a creare un forte distaccamento nella zona di Monterotondo,” ha spiegato Eccli. In quella zona aveva sede una base militare dell’esercito italiano.

In città c’era una certa famiglia De Battistis, che sosteneva i soldati sovietici, fornendo loro cibo, vestiti e riparo. Una sera tardi, il capofamiglia Domenico De Battistis offrì a Tarasenko di passare la notte in casa. Al mattino, la moglie di Domenico si accorse che la casa era circondata dai tedeschi.

Tarasenko era in trappola. La donna dette Fausto, suo figlio, a Tarasenko. “Esci con il bambino”, gli disse, e istruì il bimbo. Quando un soldato tedesco si avvicinò, il piccolo abbracciò Tarasenko gridando: “Papà, papà!”. Il soldato hitleriano lasciò passare “padre” e “figlio”, senza fare domande. Grazie al piccolo Fausto, Tarasenko sopravvisse alla guerra.

“Fausto era davvero piccolo, poverino, non capiva… comunque è un atto eroico quello che ha compiuto,” ha detto Massimo Eccli. Con quella piccola recita e quell’abbraccio salvò il partigiano sovietico.

L’incontro con Fausto

Dopo la guerra, Tarasenko tornò in patria. Le due famiglie si tennero in corrispondenza, ma dopo un po’ lo scambio di lettere si interruppe. Molti anni dopo, Eccli, dopo lunghe ricerche, trovò il piccolo Fausto De Battistis, ormai ottantenne.

Fausto mostrò il luogo in cui a Monterotondo c’era la casa di famiglia e condivise i suoi ricordi. Raccontò che quando Anatolij e gli altri soldati lasciavano la boscaglia, a volte cenavano con la sua famiglia, e che i suoi genitori aiutavano i partigiani come potevano.

“Quando c’erano i partigiani russi, avevo tre o quattro anni. Non ricordo bene l’episodio in cui ho urlato ‘papà, papà’, ma forse ho salvato la vita ad Anatolij. Me lo hanno raccontato i miei genitori”.

Eccli ha anche incontrato la nipote di Tarasenko, Tatjana Rodionova, che dopo molti anni ha ringraziato Fausto e ha promesso di raccontare la storia ai suoi figli.

“Verrò a Monterotondo con la mia famiglia, perché è molto importante testimoniare alla nostra generazione quanto sia stata orribile la guerra e ciò che la gente ha dovuto affrontare per difendere la propria patria. Grazie”, ha detto in un videomessaggio indirizzato a Fausto.

Nel 2018, Massimo Eccli ha presentato il suo libro alla Biblioteca di Stato russa. Ma la sua ricerca da allora non è finita. Sta ancora cercando i nomi dei partigiani, incontra i parenti, colleziona lettere e fotografie per nuove storie.

“Ho fatto un database che continuo a riempire. Ormai sono circa mille pagine di nomi e cognomi,” ha detto. Eccli ha anche preparato una versione del libro in lingua italiana e spera di vederlo uscire quest’anno: “La versione in italiano è pronta, deve essere solo pubblicata”, ha concluso.


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