Alessio Mikhailovich: salvò se stesso, la sua famiglia e l’esercito
Quando il 18 maggio 1654, lo zar Alessio (Aleksej) Mikhailovich (1629-1676) partì con il suo esercito per la guerra russo-polacca, assieme a lui, allora venticinquenne, c’erano quasi tutti i più alti esponenti della nobiltà. Sicuramente qualcuno di loro aveva paura di morire, visto che lo zar voleva assediare e riconquistare Smolensk, persa dai russi circa 35 anni prima. Non sapevano che la morte non era in agguato contro di loro che partivano per fare la guerra, ma contro quelli che erano rimasti tranquilli a Mosca. In città, infatti, stava per scoppiare una terribile pestilenza.
La peste, come apparsa dal nulla, iniziò a diffondersi rapidamente nella capitale. Alla fine di giugno, più di 30 persone morirono alla corte del boiardo Vasilij Sheremetev, che era impegnato nella campagna militare.
Iniziarono il panico e la fuga dalla città: cosa fare, esattamente, nessuno lo sapeva, e non si aveva idea del sistema della quarantena (che a Venezia era attivo dal XIV secolo). Tutti i palazzi statali vennero chiusi e Mosca rimase guidata dai boiardi Mikhail Pronskij e Ivan Khilkov.
Lo zar, prontamente informato, era terrorizzato. Cresciuto in un’atmosfera di devozione e religiosità, la peste gli sembrava “un messaggio divino”, una punizione per alcuni peccati di cui non si rendeva conto. A luglio, l’epidemia era già in pieno: coloro che erano fuggiti da Mosca l’avevano portata in tutta la Russia centrale. Lo zar ordinò alla zarina Maria, insieme al neonato zarevich Aleksej e alle sorelle dello zar, di lasciare il Cremlino per il Monastero della Trinità di San Sergio (a Sergiev Posad). Portarono con sé le icone della Madre di Dio di Kazan e del Monaco Sergio: come il popolo, anche la famiglia reale era convinta che i santuari fossero indenni dalle epidemie e che le icone proteggessero dalla peste.
Ma già alla fine di agosto, quando le vie di Mosca erano ormai piene di cadaveri, le immagini sacre furono riportate in città, perché molti ritenevano che la pestilenza sarebbe cessata in quel modo. Invece non si fermò; ma il patriarca Nikon, per ordine dello zar, si unì alla famiglia reale per “proteggerla dalla pestilenza”.
Lo stesso zar, in quanto persona istruita, comprese la necessità di limitare la diffusione dell’epidemia. Ai soldati dei posti di blocco lungo le strade, venne dato l’ordine di rimandare indietro da dove venivano tutti coloro che si avvicinavano e di catturare e giustiziare chi cercasse di aggirare il divieto. Nel centro di Mosca, il Cremlino dovette essere chiuso perché quasi tutti gli arcieri che lo difendevano erano morti, e in tutta l’area cittadina, le persone infette aggiravano ora con facilità i posti di blocco non più difesi. Non riuscivano a superare i blocchi solo nella direzione di Smolensk: qui il sovrano e l’esercito erano dietro la linea della quarantena, ancora al sicuro dall’epidemia, e quindi le regole erano severissime, e nessuna delle persone infette poteva arrivare ai luoghi in cui si trovava l’esercito.
Lo zar era molto preoccupato per la moneta sonante che doveva essere pagata ai soldati ed era portata dal tesoro di Mosca: pensava che attraverso monete infette la peste potesse dilagare anche lì. Alessio Mikhailovich ordinò che i soldi venissero lavati e solo dopo fossero distribuiti.
Vennero fatte osservare le rigide misure della quarantena anche ai membri della famiglia reale. Il 7 settembre, quando la zarina con il bambino e le sorelle dello zar erano sul Nerl, una lettera fu inviata da Mosca al boiardo Mikhail Pronskij con l’ordine di fermare la corrispondenza con la famiglia dello zar e di scrivere direttamente solo a lui.
Quando la famiglia imperiale si trasferiva da un posto all’altro, la strada veniva precedentemente esplorata, per vedere che non ci fossero appestati in giro. Mentre andavano al monastero di Kaljazinskij, seppero che il giorno prima aveva attraversato la strada un corteo funebre, con la bara con il corpo di un boiardo morto per la peste. Fu ordinato di ricoprire l’incrocio con tronchi di 20 metri, bruciare a fondo il terreno e portare via quello che restava. Solo dopo questa procedura gli equipaggi della famiglia reale furono autorizzati a continuare il loro viaggio.
Così la famiglia reale, il patriarca Nikon e lo zar riuscirono a scampare alla peste. A novembre-dicembre, l’epidemia iniziò a placarsi, grazie al freddo. Ma lo zar tornò nella capitale solo dopo un’attenta ricognizione, nel febbraio 1655. Le sue impressioni furono terribili. La torre Spasskaja era senza campana, l’orologio era fermo: era scoppiato un incendio e non c’era più nessuno per spegnerlo, così la campana era caduta giù. In molte strade la neve era incontaminata, perché non c’erano più persone a calpestarla: “Le strade sono coperte di neve e non c’è neanche un’orma, tranne qualcuna di cane”, scrisse il patriarca Nikon in quei giorni.
Lo zar entrò al Cremlino di fretta, parlando con il patriarca. Gli arcieri spazzavano la neve di fronte al sovrano con ampie scope. Lui trasudava calma e grazia, come si addice a un sovrano ortodosso. Ma poi, per tutta la vita Alessio Mikhailovich continuò a temere più di tutto la peste e le epidemie. Ciò è dimostrato dalle “corna di unicorno” (in realtà, zanne di narvalo) da lui acquistate, credendo che, macinandole, la loro polvere potesse proteggere da qualsiasi pestilenza.
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Caterina la Grande: agì come capo epidemiologo
Sotto Caterina la Grande (1729-1796), la peste apparve in Russia nella seconda metà degli anni Settanta del Settecento, portata dal fronte della guerra con l’Impero ottomano. L’imperatrice, che due anni prima era stata vaccinata contro il vaiolo (si trattava in realtà della variolizzazione, un antecedente storico del vaccino), ovviamente era conscia di quanto fossero pericolose le epidemie.
Questo però rende ancora più strano il fatto che al rapporto del comandante delle truppe russe in Moldavia e Valacchia, il tenente generale Christopher von Stofeln sulla diffusione della peste nella città di Focșani, dell’8 gennaio 1770, nessuno prestasse particolare attenzione. Probabilmente speravano che la peste sarebbe rimasta lì, in Moldavia e in Valacchia, dove i russi venivano già uccisi dai proiettili. Dopo altri tre rapporti, von Stofeln finalmente ricevette le istruzioni per isolare le truppe dai residenti locali, ma a maggio von Stofeln inviò i suoi ultimi rapporti. Fino a giugno non visse.
La peste imperversò per tutta l’estate. Nell’agosto del 1770, lo stesso Voltaire, preoccupato, scrisse a Caterina II che le truppe di lei erano decimate dalla peste. Il 27 agosto l’imperatrice ordinò al governatore generale di Kiev Fedor Voeikov di organizzare quarantene ai confini. Il 19 settembre 1770, il governatore di Mosca Pjotr Saltykov ricevette l’ordine di istituire un posto di quarantena nell’avamposto di Serpukhov. Le misure preventive consistevano nel “fumigare” abiti e oggetti. In molti casi, la quarantena durava solo due giorni e i corrieri dall’esercito diretti a San Pietroburgo venivano fermati per non più di tre ore. In generale, l’imperatrice aveva ordinato misure insufficienti, e le autorità locali non osavano correggerla e in generale sembravano sottovalutare la situazione.
A novembre, zone di quarantena obbligatoria erano già posizionate su tutte le strade per Mosca. Ma era ormai tardi. A dicembre, la piaga apparve in città. “Tutti i tipi di cautela sono stati presi”, scrisse Saltykov a Caterina, ma senza specificare quali. L’imperatrice dovette di nuovo prendere delle decisioni da sola. Ordinò: di lasciare aperti solo pochi ingressi alla città; bruciare ginepro nelle strade e nelle piazze; mandare i sacerdoti già infetti dalla peste a officiare i funerali a coloro che morivano per il morbo. Ma non si pose il dubbio che forse non fosse il caso di tenere simili funerali per persone morte di peste, e questo fu uno dei motivi di una diffusione ancora maggiore del morbo.
Il 7 febbraio Saltykov riferì che “tutti i pericoli di una malattia contagiosa erano finiti” e proprio in quel momento, quando la vita sembrava riprendere, apparvero nuovi focolai di peste. Caterina smise di fidarsi dei rapporti di Saltykov e continuò a dare istruzioni di testa sua: smaltire oggetti infetti, assegnare cimiteri speciali della peste fuori città… Il 31 marzo, la città venne totalmente chiusa: non si entrava e non si usciva. I moscoviti arrivarono ad acquistare gli alimenti in questo modo: alla periferia della città venivano organizzati dei mercati in cui tra venditori e acquirenti c’era una separazione di fuoco. Lì, tra fiamme e fumo, restando a grande distanza, si mettevano d’accordo su quantità e prezzo, e il denaro veniva poi immerso nell’aceto. Queste misure ai nostri occhi primordiali contribuirono comunque a prevenire la diffusione della peste nelle province settentrionali.
A Mosca, invece, da luglio a novembre 1771, l’epidemia uscì di controllo. “Molti cadaveri giacciono nelle strade: le persone cadono morte da sole o vengono gettate, ormai morte, dalle finestre delle case. La polizia non ha abbastanza persone o veicoli per trasportare i malati e i morti, così spesso i cadaveri restano nelle loro case per 3-4 giorni”, scrisse Johann Lerche, un medico straniero. Nel settembre del 1771 scoppiò una rivolta; i ribelli uccisero il metropolita Ambrogio. Saltykov fuggì dalla città, e con lui molti alti dignitari. L’ordine in città fu affidato al generale Pjotr Eropkin. La rivolta fu sedata con l’aiuto delle truppe.
Dopo aver sedato la ribellione a Mosca, Caterina inviò il suo favorito, Grigorij Orlov, a combattere la peste. Lui agì razionalmente, riunendo una consulta di specialisti medici e seguendo le loro istruzioni. Nell’aprile del 1771, la città fu divisa in parti totalmente recintate e si fu gradualmente in grado di isolare la malattia, e anche la stagione fredda fu d’aiuto. Caterina fu estremamente soddisfatta del successo di Orlov e ordinò di erigere un arco trionfale a Tsarskoe Selo con la scritta “Orlov salvò Mosca dalla disgrazia”. Più di 60 mila persone morirono solo nella regione di Mosca durante l’epidemia, la cui fine fu annunciata solo nel novembre 1772.
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Nicola I: rassicurò personalmente i sudditi
La terza volta che un’epidemia di massa, stavolta di colera, si impadronì delle capitali, cominciò sui fronti militari del sud e raggiunse San Pietroburgo, nonostante le quarantene che avevano paralizzato il commercio russo imposte dal ministro dell’Interno Zakrevskij.
La corte imperiale, situata a Peterhof (perché era estate), si chiuse immediatamente nell’autoisolamento più severo: l’imperatrice consorte Aleksandra Fedorovna era peraltro nel suo ultimo mese di gravidanza. Come ha ricordato la figlia dell’imperatore, la Granduchessa Olga Nikolaevna, “nessuno aveva il diritto di entrare a Peterhof. E furono buttati via i migliori frutti di quella estate particolarmente calda, così come lattuga e cetrioli”.
Nel giugno del 1831, circa 3 mila persone morirono a San Pietroburgo in due settimane. La quarantena fu introdotta in città; la situazione si stava surriscaldando a causa delle voci di un complotto su un avvelenamento di massa e su un nemico interno. E partì la caccia all’untore.
“Avvicinandomi all’incrocio Pjat Uglov, sono stato improvvisamente fermato da un piccolo negoziante, che gridava come un forsennato che avevo gettato del veleno nel suo kvas, che se ne stava in un secchio vicino alla porta”, ha scritto un contemporaneo, il traduttore Sokolov. La folla voleva linciarlo e lo spogliò nudo in cerca di una fialetta di veleno nascosta da qualche parte, e lo avrebbero sicuramente ucciso, se un ufficiale non avesse disperso in tempo la gente infuriata con la sciabola.
Nel giugno del 1831, mentre la situazione restava la stessa, la folla cominciò a distruggere l’ospedale del colera vicino a Piazza Sennaja. Diversi medici e un ufficiale furono uccisi. La piazza con i ribelli venne circondata dalle guardie, e quindi arrivò l’imperatore da Peterhof.
Aleksander Bashutskij, allora aiutante del governatore generale di San Pietroburgo, scrisse: “Il sovrano si alzò in piedi, si tolse il cappotto polveroso, si fece il segno della croce davanti alla chiesa, alzò il braccio e, lentamente riabbassandolo, disse solo: ‘In ginocchio!’”. Un altro memorialista ha tramandato le sue parole: “Non inchinatevi davanti a me, ma mettetevi in ginocchio, prostratevi al Signore Dio, chiedete misericordia per il grave peccato che avete commesso. Avete ucciso dei funzionari che aiutavano i vostri fratelli… Non riconosco in voi dei russi”, disse l’imperatore. “Ci è stata mandata una terribile prova: un’infezione! Era necessario prendere misure per fermare la sua diffusione: e tutte queste misure sono state prese sotto il mio comando. Quindi vi lamentate di me? Bene, eccomi qui! E vi ordino di obbedire”. Ad ascoltare queste parole e a tramandarle è stato il poeta Vasilij Zhukovskij.
Quel giorno ci furono diversi discorsi dello zar davanti alle persone, in diversi luoghi della piazza Sennaja e della città. In ogni caso, Nicola I (1796-1855) si basava sul fatto che suo fratello maggiore, Konstantin Pavlovich, era morto di colera a Vitebsk una settimana prima, il 15 giugno 1831, dopo essersi ammalato da meno di un giorno. L’imperatore, a quanto pare, era ancora sotto choc per la morte del fratello maggiore, e questo diede credibilità alle sue parole. Il colera è una realtà, non una cospirazione. L’imponentissima figura dell’imperatore (era alto 210 cm, persino più di Pietro il Grande, che era 203), e la sua arte oratoria, riuscirono a invertire la tendenza. Come ha ricordato il capo dei gendarmi Aleksandr Benkendorf: “Lo stesso giorno andò in tutte le parti della città e presso tutte le truppe… Ovunque si fermò e rivolse alcune parole ai comandanti e ai soldati; ovunque venne ricevuto con grida gioiose, e il suo aspetto imponeva silenzio e calma ovunque.”
Certo, avvennero alcuni incidenti isolati, ma la situazione generale dopo la sortita dell’imperatore era notevolmente normalizzata. Lui stesso prese precauzioni: durante l’epidemia di colera, dopo ogni viaggio, si lavava completamente, si cambiava tutti i vestiti e solo dopo andava in famiglia o al lavoro.
Ma a settembre, il colera divampò a Mosca. “Verrò a condividere pericoli e difficoltà con voi”, disse l’imperatore al principe Dmitrij Golitsyn, governatore generale di Mosca, e andò nella vecchia capitale, dove rimase per più di una settimana. “Tutti sono toccati dalla magnanimità del sovrano e dal suo coraggio di venire qui in un momento come questo”, scrisse il funzionario moscovita Aleksandr Bulgakov a suo fratello. “Sto morendo: voglio vedere l’imperatore, anche se da lontano. Se non nevicasse, andrei al Cremlino con la gente a guardare”.
Al Cremlino, il 29 settembre, l’imperatore pregò con il metropolita di Mosca Filarete per la liberazione dall’epidemia, e si riunì una grande folla di persone. Una follia epidemiologica! “Perché ammettere folle al Cremlino?”, lo stesso Bulgakov era indignato. “Ora vengo da lì, ho visto la processione e la gente: ovviamente non meno di ventimila persone. Ma questi assembramenti diffondono solo l’infezione!”.
L’epidemia invece frenò; funzionari e dottori diventarono più veloci nelle decisioni, perché Nikolaj visitò sia le istituzioni che gli ospedali, dove si recò con audacia nei reparti del colera e parlò con i pazienti. I pazienti venivano catturati nelle strade, dove, come vagabondi e ubriaconi, barcollavano e diffondevano la malattia. L’imperatore, nel frattempo, ricevette numerosi influenti mercanti. “Secondo i rapporti, il colera ha privato la Russia di 20 mila persone… Io stesso sono andato al mercato delle mele, i frutti adesso sono dannosi; ho proposto di bloccare per un po’ le vendite”, disse l’imperatore. Si assicurò che almeno nei mercati le persone non si affollassero. I mercanti dissero che questo li avrebbe rovinati, ma l’imperatore ordinò al governatore generale, il principe Dmitrij Golitsyn, di stanziare fondi per sostenerli.
Nel palazzo, dove soggiornò lo zar, furono prese misure di sanificazione. Tutti quelli che entravano nelle camere furono costretti a versarsi candeggina sulle mani e sciacquarsi la bocca. Tutta Mosca, nel frattempo, era in apprensione per la salute dell’imperatore; ogni suo disturbo e mal di testa, specialmente dopo aver mangiato, suscitava un sacco di voci e ansia. Ma il sovrano partecipava a serate tra nobili e cene e comunicava con l’aristocrazia locale, scherzando persino sul colera. “E freddamente dà la mano alla peste”: così Aleksandr Pushkin descrisse la mancanza di paura dell’imperatore nella poesia “Eroe”, datata “29 settembre 1830. Mosca ”, sebbene a quel tempo il poeta fosse in quarantena a Bolshoe Boldino; ma spiritualmente, evidentemente, voleva stare vicino allo zar.
Il 7 ottobre, Nicola I ripartì per San Pietroburgo, dopo essere stato messo in quarantena per tre giorni a Tver. Poi venne l’inverno, e l’epidemia di colera a Mosca iniziò a declinare.
Cosa hanno fatto tre grandi russi in tempi di quarantena o di isolamento forzato?