Così ho difeso Stalingrado: il diario di un eroe

Storia
BORIS EGOROV
La battaglia per il controllo della città sul Volga è stata tra le più cruente della storia dell’umanità e ha contribuito a cambiare le sorti della Seconda guerra mondiale. Ma sono in pochi quelli che hanno potuto combatterla dal primo all’ultimo giorno. Abbiamo ricreato il diario di un tale soldato, tramite un collage di vere testimonianze dei sopravvissuti

Più di un milione di soldati sovietici presero parte alla fatidica battaglia di Stalingrado, che cambiò i destini della Seconda Guerra Mondiale. Alcuni di loro furono impegnati a cercare di fermare il nemico alla periferia della città, altri dovettero combattere strada per strada e casa per casa già nel centro di Stalingrado, mentre altri infine infersero il colpo mortale alla più potente armata tedesca sul fronte orientale, la 6. Armee della Wehrmacht, comandata dal generale Friedrich Paulus.

Dopo aver letto decine di memorie dei soldati dell’Armata Rossa che presero parte ai combattimenti, abbiamo immaginato come sarebbe apparsa la Battaglia di Stalingrado agli occhi di un semplice soldato che fosse riuscito a prendere parte a tutti gli episodi chiave di questo incubo dai primi agli ultimi giorni.

Ecco a voi il nostro eroe. Il siberiano Mikhail Nekrasov, ventenne, soldato semplice di una divisione di fanteria. Appena arruolato nell’Armata Rossa, riceverà il suo battesimo di fuoco nella battaglia più terribile della storia. Il suo diario si basa sulle memorie reali di fanti, carristi, addetti radio, artiglieri e altri soldati che riuscirono a rompere l’assedio della Wehrmacht nella città sul Volga che portava il nome di Stalin e che oggi si chiama Volgogràd

23 agosto 1942

Siamo appena arrivati a Stalingrado e subito siamo finiti all’inferno. Centinaia di bombardieri tedeschi trasformano la città in un incubo di fuoco. Tutto ciò che può bruciare, brucia. Persino il Volga: il petrolio che si è riversato nel fiume dai depositi bombardati è in fiamme.

3 settembre 1942

Sotto il bombardamento e il fuoco incessante dell’artiglieria, ci dirigiamo verso la sponda occidentale del Volga. È difficile discernere ciò che sta accadendo da quella parte; si intravedono solo le scatole vuote degli edifici e pezzi crollati di muri di mattoni, travi e ferro, e il segno nero delle cime degli alberi. Siamo riparati tra le rovine. Qui, praticamente addossato alla riva del fiume, si trovava il quartier generale della nostra 62ª Armata.

12 settembre 1942

L’aviazione tedesca sorvola la città giorno e notte. Non c’è scampo a questo ronzio. C’è solo un desiderio: infilarsi più a fondo possibile nel terreno, rosicchiarlo e scavarlo con le unghie e fondersi con esso; diventare invisibili. I nostri aerei sono quasi assenti, a volte i nostri “asinelli” (il soprannome dei Polikarpov I-16) cercano di interferire, ma sono fatti a pezzi dal fuoco dei Messerschmitt.

15 settembre 1942

Prima di metterci in riga, il comandante del 1345° reggimento, il maggiore Zhukov, e il commissario politico del reggimento Raspopov sono stati fucilati: “Attaccati dal nemico, si sono spaventati in battaglia, abbandonando il reggimento e fuggendo vergognosamente sul campo di battaglia”. Disprezziamo i codardi. Tutti hanno paura, ma tutti qui sono in guerra. Hanno ottenuto quello che si meritavano…

19 settembre 1942

La fanteria nemica è entrata in centro città e da qualche parte è riuscita ad arrivare persino al fiume. Abbiamo ricevuto l’ordine di riconquistare l’edificio della Banca di Stato, da cui i tedeschi hanno l’intero Volga in piena vista. L’assalto è stato condotto dalla 13ª Divisione dei Fucilieri della Guardia. Noi eravamo d’appoggio. I genieri, sotto la copertura dei fucili mitragliatori, hanno trascinato casse di tritolo fino all’edificio. Dopo l’esplosione, le truppe d’assalto hanno fatto irruzione all’interno uccidendo i membri del presidio tedesco, storditi dagli scoppi. Le unità anti ritirata a Stalingrado stanno combattendo insieme alle unità ordinarie. Il comando li utilizza principalmente come riserva e non per lo scopo previsto. E anche così non ci sono abbastanza soldati!

3 ottobre 1942

Ci sono combattimenti casa per casa, strada per strada. Giorno e notte Non c’è più paura, è sparita. La sensazione di morte imminente è costante. Si avverte una certa disperazione e indifferenza. Un nostro carro armato è colpito, qualcosa brucia dentro ed esplode. Il caposquadra si avvicina a un carro armato in fiamme con una scodella di kasha e la mette a scaldare. Ci abituiamo proprio a tutto…

7 ottobre 1942

A volte vediamo dei nostri carri armati T-34 e KV-1 con croci uncinate tedesche sulle torrette. Una volta, al crepuscolo, alcuni di questi carri armati catturati dai tedeschi si sono incuneati nella colonna dei nostri carri armati diretti alle riparazioni. Una volta raggiunto il territorio della fabbrica di trattori si sono messi agli angoli e hanno aperto il fuoco. Hanno fatto molti danni prima di essere distrutti. I nostri soldati, ovviamente, sono eroi, ma i tedeschi a volte si sacrificano in un modo che rasenta il fanatismo.

23 ottobre 1942

Il comando ci ha dato l’ordine di mantenere il controllo delle fabbriche “Barrikady” e “Krasnyj Oktjabr” a tutti i costi. Appena oltre questi complessi giganti c’è il Volga. Se le perdiamo, perdiamo la città. Tuttavia, più facile a dirsi che a farsi. Nonostante la nostra perseveranza, i tedeschi ci spingono verso il fiume.

11 novembre 1942

Tutte le officine della fabbrica “Barrikady” sono state perdute. I resti della nostra divisione sono riusciti a fortificare una posizione in una piccola zona al confine dell’impianto. Il nemico ha ucciso tutte le divisioni vicine e ci ha bloccato da tre lati su un piccolo pezzo di terra. Dietro di noi c’è il Volga. Siamo in comunicazione con la “grande terra” solo via barca.

18 novembre 1942

Ci stiamo aggrappando alla forza della disperazione. Tutta la nostra piccola “isola” viene colpita dal nemico in continuazione. I tedeschi ci assaltano di giorno, e di notte cercano di scavare dei tunnel per raggiungerci. Combattiamo spesso corpo a corpo. Tutti gli scantinati sono stipati di cadaveri. Come cibo, abbiamo solo una galletta al giorno. Le barche cercano di consegnarci rifornimenti e portare via i feriti, ma subiscono gravi perdite. Di notte, i nostri aerei ci lanciano pacchi, ma per la maggior parte mancano l’obiettivo, cadendo fuori dalla nostra “isola”. Non abbiamo abbastanza cartucce, combattiamo con le armi prese ai nemici uccisi. Quando le cose si mettono del tutto male, chiamiamo il fuoco della nostra artiglieria dall’isola Zaitsevskij su di noi.

22 novembre 1942

Finalmente arrivano buone notizie. Si scopre che già da diversi giorni, nella periferia della città, i nostri hanno effettuato l’operazione Urano, un’offensiva contro le truppe romene che coprivano i fianchi dell’esercito tedesco. C’è ogni motivo per sperare in un successo. I romeni sono peggio equipaggiati e non combattono in modo efficiente come la Wehrmacht. Abbiamo avuto almeno un po’ di tregua. I tedeschi tacciono, e non stanno più bersagliando le nostre posizioni.

29 novembre 1942

Abbiamo ricevuto l’ordine di attaccare. Ora la divisione libererà il territorio della fabbrica e avanzerà verso il centro di Stalingrado. Io non prendo parte a questo attacco: con alcuni altri soldati vengo mandato fuori città per rafforzare Urano.

19 dicembre 1942

Un vero incubo! Nel villaggio di Verkhne-Kumskij, i carri armati di Erich von Manstein, cercando di liberare i propri a Stalingrado, hanno sfondato le nostre difese. Siamo rimasti vivi in una decina. Abbiamo corso al limite del campo. La nostra artiglieria era lì, silenziosa. Gli abbiamo gridato “Perché, brutti stronzi, non sparate?!”. Ci hanno risposto: “Abbiamo tre proiettili per pezzo di artiglieria. L’ordine è di sparare solo a puntamento diretto.”

Di notte, i tedeschi ci hanno circondato. Non sapevamo dove andare. Intorno rumore di motori, si sentiva parlare in tedesco. Ci hanno notato, hanno aperto il fuoco. Quanti sono fuggiti, non lo so dire. Siamo entrati in un villaggio. Lì ho incontrato un uomo in un completo mimetico bianco. Lo afferro per il petto, lo scuoto, gli grido in faccia: “Chi sei?!” Era spaventato, taceva. Lo prendo per il cappello e sento delle punte acute sul palmo…è la stella dell’Armata Rossa! I soldati mi hanno trattenuto a malapena. L’offensiva tedesca alla fine è stata respinta: ci hanno aiutati i ragazzi della 2ª Armata delle Guardie.

24 dicembre 1942

Accompagniamo i carri armati della 170ª Brigata motorizzata. Collaboriamo con i carristi traendone reciproco profitto. Durante il giorno loro ci coprono e di notte, quando i carri armati sono ciechi, noi siamo i loro occhi e le loro orecchie. Abbiamo conquistato le fattorie Khlebnij e Petrovskij. Alle 5 del mattino danno l’allarme. Nella pianura tra le fattorie, è stato avvistato il nemico. Sono i resti dell’Ottava Armata italiana che lasciano l’accerchiamento. Non appena le unità avanzate arrivano dalle nostre parti, arriva il comando: “Avanti! Schiacciateli!” Arriviamo dai due fianchi con i carri armati e letteralmente mettiamo gli italiani sotto terra, schiacciandoli con i cingoli. Li raggiungiamo, e li finiamo. Non ho mai visto un incubo del genere. I carri armati, tinti di bianco con la calce per mimetizzarsi nella neve, sotto tutti rossi, fino alle torrette, come se avessero fatto il bagno nel sangue. Tra i cingoli dove è rimasta incastrata una mano, dove un pezzo di cranio…

27 gennaio 1943

Percorriamo la Stalingrado distrutta. Le nostre truppe hanno appena spezzato la 6ª Armata tedesca in due gruppi. Ora non gli resta molto tempo! In uno degli edifici troviamo centinaia di selle. A quanto pare, la Prima divisione di cavalleria romena è finita nella tenaglia. I Fritz si sono mangiati tutti i loro cavalli; si sono fatti una bella festa.

31 gennaio 1943

Il gruppo meridionale nemico nel centro della città si è arreso, insieme a Friedrich Paulus stesso. I tedeschi rimangono ancora vicino alla fabbrica dei trattori. Le strade sono piene di cadaveri. Gli scantinati sono pieni di feriti, che muoiono di freddo e fame. I nostri medici li aiutano quando possibile. I soldati camminano tra le file, catturano gli uomini delle SS (anche se ce ne sono pochi) e i traditori-disertori che hanno aiutato il nemico (i tedeschi li chiamano “Hiwi”). Li finiscono con un proiettile in fronte.

2 febbraio 1943

Improvvisamente, dopo molti mesi, hanno taciuto gli spari dell’artiglieria, che credevamo non sarebbero finiti mai. C’era un silenzio così insopportabile e penetrante che dolevano le orecchie. Un soldato gioioso è arrivato correndo, gridando: “Ecco! La guerra è finita! Anche il gruppo tedesco settentrionale si è arreso. Qualcuno ha pianto, qualcuno ha riso. Molti son rimasti in silenzio. Abbiamo capito che non era finito proprio nulla. Ma Stalingrado ci ha mostrato in modo convincente qualcosa a cui nessuno aveva mai osato credere prima: i tedeschi si possono battere!

Fonti usate: Artjom Drabkin, “Ja dralsja v Stalingrade. Otkrovenija vyzhivshikh” [Ho combattuto a Stalingrado. Rivelazioni dei sopravvissuti], Mosca, 2012. Aleksej Isaev, “Stalingrad. Za Volgoj dlja nas zemli net” [Stalingrado. Per noi non c’è terra al di là del Volga]. Mosca, 2018


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