“Questa donna piccola, magrolina, dai capelli già ingrigiti, con un viso rugoso da anziana… Guardandola, non si riesce a credere che fino a poco tempo fa fosse bella a tal punto da incantare i suoi carcerieri”. Con queste parole Anton Chekhov ha descritto Sofja Bljuvshtejn (1846-1902), conosciuta nel mondo criminale come la ladra e truffatrice “Soniuccia Mano d’oro” (in russo: “Sonka Zolotaja Ruchka”).
Lo scrittore conobbe Sonja nel 1890, a Sakhalin, dove la donna stava scontando i lavori forzati, e quando gli anni della gloria da ladra imprendibile erano ormai alle sue spalle. Ma tra il 1860 e il 1870 la Bljuvshtejn, ebrea originaria di un piccolo villaggio vicino a Varsavia (la Polonia faceva allora parte dell’Impero Russo), aveva fatto girare la testa a molti in Russia e in Europa (conosceva cinque lingue), organizzato furti e portato via ingenti somme grazie a truffe ai danni di sempliciotti.
Sonja agiva alla grande e con talento, non disdegnando nessun mezzo. Sotto le spoglie di una nobile signora, entrava negli hotel, penetrava nelle stanze altrui e le ripuliva. Riuscì anche a portar via diamanti dalle gioiellerie nascondendoli sotto le unghie finte o in bocca. Facendosi passare per aristocratica o mercantessa, recitava la parte di un’anima così semplice e gentile che tutti si fidavano di darle denaro e gioielli.
Fu ripetutamente arrestata, processata e talvolta imprigionata, ma, grazie alla sua bellezza, fece perdere più di una volta la testa alle guardie carcerarie e fuggì con loro. Un giurato, a uno dei processi contro la Bljuvshtejn, disse, non senza una certa ammirazione, che lei era in grado di “prendere al lazzo un buon centinaio di uomini”. Ma con il passare del tempo, la bellezza di Sonja iniziò a sfiorire e così la sua fortuna nei furti, tanto che concluse i suoi giorni da reclusa sull’Isola di Sakhalin. Sebbene girassero leggende secondo cui la ladra inafferrabile era riuscita a sfuggire persino dai lavori forzati, e stava trascorrendo la vecchiaia a Odessa o a New York…
Tra il 1871 e il 1875 fu attivo in Russia un grande conglomerato di truffatori, composto da più sottogruppi e oltre quaranta persone: dal principe Dolgorukov, discendente del Rjurikidi, la dinastia russa che aveva preceduto i Romanov, alle prostitute e agli abitanti dei bassifondi di Mosca. Il nome alla banda di malviventi (in russo: “Klub chervonnykh valetov”) fu dato da un investigatore, che lo prese in prestito da un poliziesco francese da due soldi di quei tempi, che raccontava le gesta di un gruppo di ladri sorprendentemente sfrontati.
“Gli imputati sono stati accusati di circa 60 crimini diversi, il cui danno ha superato i 300 mila rubli”, scrive l’avvocato Aleksandr Zvjagintsev sul processo ai “fanti di cuori” del 1877. Come testimoniava il giornale “Moskovskie Vedomosti”, “i biglietti per il pubblico sono stati tutti distribuiti”; tutti volevano infatti assistere a come venivano giudicate in tribunale queste stelle del mondo criminale.
I “fanti di cuori” erano responsabili dei più vari reati: avevano fondato false società, chiedendo anticipi e cauzioni alle persone che si presentavano per trovare un lavoro, stamparono denaro falso, e talvolta semplicemente facevano ubriacare i ricchi e li costringevano a firmare cambiali. Alla fine del processo, 19 degli 45 accusati vennero assolti, gli altri finirono invece in Siberia ai lavori forzati.
La biografia di questo truffatore è difficile da ricostruire, poiché è basata principalmente sulle sue storie e Nikolaj Savin ha mentito per tutta la vita. È noto che fosse di origini nobili, e che per qualche tempo ha servito nella cavalleria leggera (motivo per il quale è stato chiamato per tutta la vita “cornetta”; dal grado militare ricoperto), ma poi iniziano infinite leggende.
Secondo Savin, noto mitomane, in gioventù era amico di Lev Tolstoj. E, sempre a quanto raccontava, aveva aiutato il cugino di Alessandro III, il Granduca Nikolaj Konstantinovich, a rubare i diamanti dalla propria madre (lo scandalo era realmente accaduto). Ma verificare le sue parole è impossibile.
Nel 1887, Savin raccontò al giornalista Vladimir Giljarovskij, che per poco non era salito sul trono di Bulgaria. A quel tempo, il trono in Bulgaria era vacante, e il reggente Stefan Stambolov avrebbe considerato la candidatura del conte di Toulose-Lautrec (con questo pseudonimo Savin viaggiava in Europa), ma alla fine cambiò idea. “Come russo, come slavo, io, da principe bulgaro, avrei potuto portare più benefici alla Russia di qualsiasi tedesco nominato da Bismarck e dall’Inghilterra”, si lamentò poi Savin nelle sue memorie.
Se parliamo dei fatti reali e documentati ascrivibili a “cornetta” Savin, allora assomigliava fortemente alla versione maschile di Soniuccia Mano d’oro: la stessa arroganza, in Russia e in Europa, la stessa varietà di metodi criminali, la stessa capacità di cavarsela molte volte senza conseguenze. Fingeva di essere un uomo ricco, si presentava con i nomi di altre persone, sposava ricche ereditiere e si appropriava delle loro fortune: non c’è astuzia o meschinità di cui Savin non fosse capace per denaro. Fu arrestato e imprigionato nel 1911 e fino alla Rivoluzione del 1917, l’avventurista rimase in prigione. Liberato, il truffatore fuggì dai comunisti, in Estremo Oriente, dove morì nel 1937.
A differenza degli altri truffatori di questa lista, i fratelli Shepsel e Lejb Gokhman, commercianti di Ochakov (oggi Ochakiv, in Ucraina), non erano famosi in tutta la Russia e certo cercarono di tenersi alla larga da tale fama. Ma furono in grado di ingannare il Louvre, uno dei musei più autorevoli del mondo intero.
I Gokhman si erano specializzati nella vendita di falsi artefatti storici, e nel 1896 riuscirono a concludere un affare estremamente redditizio: il Louvre acquistò la tiara d’oro del re degli sciti Saitaferne del il terzo secolo A.C. In realtà, l’“antico manufatto” era stato realizzato dal gioielliere di Odessa Israel Rukhomovskij.
Il vero eroe di questa storia è proprio Rukhomovskyij. A differenza dei Gokhman, era un uomo onesto e non sapeva che il diadema che aveva creato sarebbe stato presentato come un’antichità. Era fatta così bene che gli studiosi europei avevano confermato l’autenticità dell“oggetto d’arte”. “I migliori archeologi e storici dell’arte erano stati invitati come esperti. E quasi tutti avevano confermato all’unanimità che la Tiara di Saitaferne era la creazione autentica di un artista antico, di alto valore”, ha scritto lo storico Aleksandr Gun. Furono gli Hokman a trarre profitto dall’inganno: il Louvre pagò 200 mila franchi per la tiara, una somma gigantesca per quei tempi.
Quando l’archeologo tedesco Adolf Furtwängler per primo mise in dubbio l’autenticità della tiara, la comunità scientifica francese andò su tutte le furie. “La possibilità che il diadema potesse essere un falso rappresentava una minaccia diretta alla reputazione della Francia come potenza culturale”, spiega Aviva Briefel nel libro “The Deceivers: Art Forgery and Identity in the Nineteenth Century”. Solo sette anni dopo, nel 1903, il Louvre dovette ammettere che si trattava di un falso: Rukhomovskij in persona arrivò a Parigi e dimostrò di aver realizzato il diadema ripetendo parte dell’ornamento. L’umile gioielliere divenne una celebrità; il museo spostò la tiara prima nel deposito e poi nella “sala dei falsi”. Quanto ai Gokhman, non pensarono nemmeno lontanamente di restituire denaro.
Come una semplice cassiera riuscì a sfilare milioni di dollari alla crème della società russa
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