L’ultimo cittadino dell’Unione Sovietica: il cosmonauta che era in orbita quando crollò l’Urss

Aleksandr Mokletsov/Sputnik
Sergej Krikaljov era decollato il 19 maggio del 1991 e doveva restare nello Spazio cinque mesi. Invece, tra vari rinvii, ritornò a Terra solo il il 25 marzo del 1992. Sulla tuta e sul casco aveva scritto CCCP, ma il suo Paese non esisteva più, e la sua città natale, Leningrado, aveva cambiato nome

Sergej Krikaljov era l’ingegnere di volo della missione Sojuz TM-12, partita il 19 maggio del 1991 dal cosmodromo di Bajkonur. A luglio accettò di rimanere a bordo della stazione spaziale Mir anche durante la permanenza del successivo equipaggio, fino a ottobre, a causa del taglio di uno dei voli programmati. Poi, tra il 19 e il 21 del mese successivo, scoppiò il “Putsch di agosto”, il tentativo di colpo di Stato della vecchia guardia del Pcus. E mentre Krikaljov se ne stava in orbita, Mikhail Gorbachev era trattenuto contro la sua volontà in Crimea e i carri armati apparivano per le strade di Mosca. Il golpe era destinato a fallire e a portare alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, ma in quel clima di instabilità anche la missione di Krikaljov era destinata ad allungarsi.

Come successe? 

“Il golpe fu per noi fu del tutto inaspettato”, avrebbe raccontato in seguito Krikaljov. “Non capivamo cosa stesse accadendo. E quando discutevamo dell’accaduto tra di noi, cercavamo di realizzare come tutto questo avrebbe influito sul settore spaziale”.

Influì e fortemente. Inizialmente sarebbe dovuto rimanere sulla Mir cinque mesi, ma tra annullamenti e accorpamenti di voli, finirono per cogliere l’occasione per studiare su di lui l’adattamento dell’organismo umano durante i voli spaziali di lunga durata. “Mi dissero che era pesante per me e poteva essere dannoso per la mia salute, ma che ora il Paese era in grande difficoltà e bisognava fare quanto più possibile”. Restò lassù.

In effetti, sarebbe anche potuto volare via. La “Mir” era dotata della capsula “Raduga” (“Arcobaleno”) per un singolo ritorno sulla Terra. Ma usarla avrebbe significato la fine della stazione orbitante e nessuno ci sarebbe più potuto andare (rimase invece attiva per altri dieci anni).

“Mi chiedevo spesso se avrei avuto la forza di sopravvivere per completare il programma. E non di rado dubitavo”, ammette. I muscoli si atrofizzavano, e le radiazioni aumentavano i rischi oncologici, mentre le sue difese immunitarie si abbassavano giorno dopo giorno, e questa era solo una parte delle pericolose conseguenze di una missione troppo prolungata. 

Nel suo caso durò 311 giorni e 20 ore (con tanto di 7 passeggiate spaziali), ossia rimase ben dieci mesi nello spazio, stabilendo volente o nolente (in Occidente si diffuse la leggenda, alimentata da alcuni mass media, che non potesse rientrare proprio a causa della situazione politica nel suo Paese) il record mondiale. Durante quel periodo, le quattro missioni previste furono ridotte a due e in nessuno dei due casi trovarono uno strapuntino libero per riportarlo sulla Terra. 

L’Unione Sovietica, che a quel tempo cercava ogni modo di trovare valuta estera per tamponare l’inflazione galoppante del rublo, vendette infatti i posti sulla Sojuz fino alla stazione orbitante ad altri Stati. Per esempio l’Austria mandò nello spazio il suo primo astronauta, Franz Viehböck, il 2 ottobre 1991, per 7 milioni di dollari. Mentre dal Giappone mandarono in orbita un astronauta per 12 milioni di dollari. Gli altri andavano e venivano e lui rimaneva lassù, e, a quanto vuole la leggenda, quando chiese del miele, gli fu risposto che non ce n’era. E gli mandarono dei limoni e del rafano.

Il ritorno 

Tornò sul nostro Pianeta il 25 marzo del 1992. Dalla capsula della Sojuz uscì un uomo provato, con sul casco e sulla tuta le quattro lettere “CCCP” e una bandiera rossa con la falce e martello di uno Stato, l’Urss, che, intanto, dal 26 dicembre del 1991, non esisteva più. Era partito dall’Unione Sovietica e ora era atterrato in Kazakistan, una nuova repubblica indipendente.

E la città dove era nato e cresciuto, Leningrado, aveva cambiato nome, tornando San Pietroburgo dal 7 settembre 1991. Mentre girava intorno alla Terra, il suo Paese si era diviso in 15 nuovi Stati, e se quando era partito i suoi 600 rubli al mese erano l’ottimo stipendio di un cosmonauta, ora il doppio, 1.200 erano pochi anche per l’autista di un autobus.

L’11 aprile 1992 lo fecero Eroe della Federazione Russa (lui che, in seguito al suo primo volo spaziale, era già Eroe dell’Unione Sovietica dal 27 aprile 1989: è una delle sole quattro persone ad avere entrambe le onorificenze). In seguito fece altri quattro voli spaziali, due con la Nasa e due con la nuova agenzia spaziale russa. Fu peraltro il primo a entrare nella nuova Stazione Spaziale Internazionale. In totale, in carriera, ha totalizzato una permanenza nello Spazio di 803 giorni, 9 ore e 38 minuti, record mondiale superato solo nel 2015 da un altro russo, Gennadij Pàdalka (oltre 878 giorni).

 

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