I politici sovietici vivevano davvero nel lusso estremo?

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È noto che i membri dell’élite comunista avevano negozi speciali diversi da quelli del popolo e che hanno conosciuto ben prima degli altri cittadini la comodità della macchina, dei viaggi in Crimea e di un appartamento confortevole. Ma anche quelli ai vertici del Paese avevano comunque meno privilegi di un medio manager occidentale di oggi

Nell’Unione Sovietica, il denaro non equivaleva al potere: per la nomenklatura (l’élite sovietica), quasi tutto era gratis, ma di proprietà statale. L’Urss ha attraversato periodi di penuria di beni di consumo nella sua storia, e avere i giusti contatti con il Partito si è rivelata sempre una strategia di sopravvivenza più efficiente che non mettere un mucchio di rubli sotto il materasso.

Tutto ciò non si applicava solo ai burocrati, ma anche alle loro famiglie e alle “celebrità” sovietiche: scrittori, cosmonauti, sportivi, ecc. Secondo il dissidente Mikhail (Michael) Voslenskij (1920-1997), autore nel 1984 di “Nomenklatura: The Soviet Ruling Class”, il fenomeno si estese a circa tre milioni di persone negli anni Ottanta. Come raccontò una volta la figlia di Stalin, Svetlana, non uno spicciolo del salario di suo padre lasciò mai la sua scrivania.

Le automobili

I papaveri più in alto nella nomenklatura sovietica ricevevano le migliori automobili del Paese, solitamente sotto forma di un Volga GAZ (l’equivalente sovietico di una Mercedes-Benz), un veicolo abbastanza lussuoso da consentire al presidente Vladimir Putin di mostrarlo con orgoglio al presidente degli Stati Uniti George W. Bush nel 2005. Erano disponibili anche le eleganti limousine ZiL e le Chaika, ma erano riservate al segretario generale e agli altri membri del comitato centrale. Alcune strade di Mosca avevano persino le loro corsie preferenziali per ZiL, per assicurarsi che i politici più importanti non fossero mai in ritardo alle riunioni.

Il fatto che si trattasse di auto del partito certamente mitigava l’aspetto “di oggetto di lusso”, in quanto i funzionari non potevano possedere auto di proprietà. Le macchine del partito avevano spesso anche lo chauffeur, ma in ogni caso, quando il funzionario lasciava il suo posto, perdeva anche l’auto.

Ma durante l’era di Brezhnev (1964-1982), l’Unione Sovietica iniziò a produrre automobili per il consumo privato. Lo Stato non aveva mai fatto della produzione di massa di macchine una priorità: in un discorso del 1959, Khrushchev aveva dichiarato: “Non è un nostro obiettivo competere con gli americani nella produzione di più auto private”. Nel 1975, il rapporto auto-persona era di appena 54: 1 (contro il 2: 1 degli Stati Uniti), e queste auto erano disponibili solo per quei cittadini che potevano permettersele attraverso un sistema di merito basato sul lavoro e rispettando una lunga coda.

Il modo più rapido e semplice per mettere le mani su una macchina, quindi, era far parte di un organo governativo o occupare una posizione di alto rango. Nel classico film sovietico (premio Oscar 1981) “Mosca non crede in lacrime”, la protagonista Katerina (un capo fabbrica) è ritratta come il simbolo della benestante donna sovietica, con il diritto all’uso di una macchina Moskvich di proprietà statale. Non proprio una Ferrari, ma sempre meglio che niente.

Anche altri funzionari di livello inferiore avevano il privilegio di saltare la coda per ottenere un’automobile, ma l’auto che avrebbero ottenuto sarebbe stata ben lontana dal lusso. Nel libro del 2010 “Pleasures in Socialism”, ad esempio, Jukka Gronow descrive come una grande quota della distribuzione di automobili Lada e Pobeda fosse supervisionata dai funzionari militari, che amministravano le macchine come premi per i membri meritevoli del loro dipartimento. Alcuni potevano persino ottenere più di una Pobeda per altri membri della famiglia: un’impresa considerata il top del lusso in quel momento, nonostante le macchine rimanessero di proprietà statale.

Le case

La distribuzione degli alloggi sovietici era molto più rigorosamente centralizzata rispetto alle automobili, e il livello del loro lusso in quelle di fascia top è cambiato drasticamente nel tempo.

Ufficialmente, nessuno possedeva il proprio appartamento a titolo definitivo, e il luogo in cui si viveva era determinato dalla vicinanza al posto di lavoro e a quello dove erano residenti i colleghi. Questo non era diverso per la nomenklatura, che si affollava in edifici con altri membri dell’élite. Questa tradizione era iniziata con Stalin, che fece erigere strutture come l’enorme edificio del Lungofiume Kanknicheskaja per ospitare funzionari dell’NKVD e artisti (i residenti di questi appartamenti furono selezionati da Stalin in persona). L’alta richiesta di stanze in questi edifici d’élite fu alleviata dall’elevato numero di purghe e repressioni.

Dopo la morte di Stalin, disgelo e fine del terrore significarono più membri della nomenklatura, e, per ospitarli, le case d’élite iniziarono a spostarsi fuori dal centro di Mosca, diventando un po’ meno lussuose. Inoltre, in netto contrasto con le stalinki, Breznev non intendeva che le case dei suoi alti funzionari fossero punti di riferimento, e preferiva che si confondessero con l’ambiente circostante.

Ne sono un esempio le Case Tsekovskij a Kuntsevo (un sobborgo borghese nella parte occidentale di Mosca), soprannominato il “villaggio dello Zar”. Come ha raccontato un ex avvocato sovietico di alto livello, Lidia Sergeevna, “Ho avuto un appartamento di tre stanze per la mia famiglia, in totale 93 metri quadrati, nel “villaggio dello zar” nel 1980. Non era un palazzo, ma avevamo un mezzanino, due balconi e un portiere all’ingresso”.

Per quanto riguarda le case dei leader, i segretari generali dell’Unione Sovietica abitavano di solito in qualcosa un po’ meglio del “villaggio dello zar”, ma ben lontano dalla Casa Bianca di Washington. L’appartamento di Leonid Brezhnev al numero 26 del prestigioso Prospekt Kutuzovskij di Mosca, che è stato venduto nel 2011 per 18 milioni di rubli (620.000 dollari, all’epoca), aveva una superficie di soli 54 metri quadrati. E pur essendo segretario generale, Breznev non possedeva questo immobile.

L’attico di Mikhail Gorbachev al 10 di Vicolo Granatnij nel centro della capitale, che occupò dal 1986 al 1991, era considerato un importante passo avanti quanto a lusso e, anche se non era di sua proprietà ma solo in uso, fece arrabbiare molte persone all’epoca. L’appartamento è stato successivamente acquistato dal compositore Igor Krutoj al prezzo presunto di 15 milioni di dollari.

Ancora maggiore indignazione fu causata dalla dacia di Gorbachev da 20 milioni di dollari a Foros, in Crimea, costruita interamente a spese dello Stato. Ciò non vuol dire che le élite sovietiche non facessero vacanze al mare anche prima: uno studio recente ha rivelato i prezzi di mercato ai giorni nostri nelle enormi case da vacanza della nomenklatura, con la villa più costosa del valore di 26 milioni di dollari in un sobborgo di Mosca, Nikolina Gora. Altri immobili da milioni di dollari in aree prestigiose al di fuori di Mosca come Peredelkino, Zhukovka e Barvikha sono stati abitati da grandi dell’arte sovietica: Pasternak, Evtushenko, Eisenstein, Esenin…

Lo shopping

È risaputo e ben documentato che i funzionari del governo sovietico potessero accedere a negozi di alimentari separati dal resto della popolazione sovietica, un fatto che indignava i comuni cittadini di un Paese socialista. Nel 1985, un uomo di nome N. Nikolaev di Kazan riassunse il sentimento della nazione scrivendo una lettera che fu pubblicata sulla Pravda “Lasciate che i capi vadano nei negozi ordinari come tutti gli altri, e che stia in fila per ore come tutti gli altri!”

Mentre i negozi sovietici tendevano a fornire al proprio popolo “prodotti di base” come pane, patate e dolci, la carne e gli insaccati erano generalmente scarsi, in particolare fuori Mosca. D’altra parte, lo studio del 1978 di Mervyn Matthews, esperto di sovietologia, dal titolo “Privilege in the Soviet Union”, ha scoperto fino a che punto le alte sfere del governo sovietico mangiassero bene. Secondo Matthews, l’8% dei negozi sovietici accettava “ordini prioritari”, distribuendo cibo altrimenti invisibile nelle dispense sovietiche, come bistecche, filetto, aragosta e caviale nero, direttamente alle porte dei funzionari due volte alla settimana.

Tuttavia, è stata discussa la portata del lusso nei piatti degli apparatchik. Per esempio l’ex vice primo ministro della Repubblica socialista del Tagikistan Georgij Koshlakov in un’intervista del 2008 ha dichiarato che i supermercati ad accesso limitato assomigliavano a qualsiasi altro negozio. “Questi negozi avevano tutto quello che avrebbe dovuto esserci nei negozi normali, e per gli stessi prezzi”, ha affermato. “Tutto era fresco: burro, formaggio, salsicce. Ma non ricordo prelibatezze esclusive.” Che il racconto di Koshlakov sia vero o no, è chiaro che i funzionari del governo non sono mai stati affamati, a differenza della gente comune.

I privilegi familiari

Nell’Urss, l’assistenza sanitaria era solitamente organizzata dalla direzione del posto di lavoro, con polikiniki (centri sanitari) presenti sul posto di lavoro e nella maggior parte dei condomini.

Inutile dire che l’assistenza sanitaria offerta alle famiglie di nomenklatura aveva uno standard più elevato. Lo scrittore per bambini Kornej Chukovskij, che fu curato in un ospedale del partito nel 1965, scrisse nel suo diario che “le famiglie del Comitato Centrale si erano costruite un paradiso, mentre le persone in altri letti di ospedale erano affamate, sporche e senza farmaci”. Questa pratica sotto Breznev fu estesa anche ai funzionari di basso livello, quando furono costruiti enormi sanatori per i capi di livello medio in località balneari come Riga e Sochi, nonché a Kursk e a Novgorod.

Oltre a essere ben seguiti sotto il profilo della salute, sembra che ai figli dei funzionari del governo fosse garantito anche il lavoro da loro scelto. Nel suo libro “The Russian Ten”, Ilijà Stogoff descrive in dettaglio come i bambini della nomenklatura andassero nelle scuole speciali, dalle quali iniziava il loro futuro luminoso. “Dopo aver ottenuto i loro diplomi… potevano andare all’estero come diplomatici, rappresentanti del commercio, giornalisti, qualunque cosa volessero”, ha scritto.

Anche la nipote di Breznev, Ljuba, ha vuotato il sacco sulla dolce vita degli eredi della nomenklatura nel suo libro di memorie “Il mondo che mi sono lasciata alle spalle” (trad. nostra). In questo candido ritratto dell’élite sovietica, Ljuba ha messo a nudo come lei e i figli dei funzionari ricevessero posti di lavoro con poca o nessuna responsabilità e si prendessero il loro tempo per limare le unghie o scrivere poesie. “Alcuni sono andati a fare volontariato in lavori molto duri”, ha scritto, “semplicemente perché non sopportavano la noia”.

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