"Vi spiego perché su Chernobyl abbiamo taciuto per due giorni"

Decontamination of the Chernobyl nuclear power plant buildings.

Decontamination of the Chernobyl nuclear power plant buildings.

Igor Kostin/RIA Novosti
All’epoca della catastrofe, Nikolaj Ryzhkov era primo ministro dell’Unione Sovietica. E dopo l’incidente alla centrale nucleare si ritrovò a dover rispondere delle decisioni prese in quei giorni, molte delle quali suscitano ancora oggi reazioni contrastanti. In un’intervista esclusiva a Rbth, Ryzhkov rivive quei drammatici momenti e gli sforzi fatti per salvare la popolazione

I lavori per la messa in sicurezza della centrale di Chernobyl. Fonte: Igor Kostin / Ria NovostiI lavori per la messa in sicurezza della centrale di Chernobyl. Fonte: Igor Kostin / Ria Novosti

Una città modello. Questa era Pripyat ai tempi dell’Urss. Quindici asili, venticinque negozi, cinque scuole. E poi ancora bar, ristoranti, alberghi, cinema e piscina. Viverci era prestigioso e lavorarci era molto conveniente. A Pripyat si trovava anche una centrale elettrica nucleare che dava lavoro a una buona parte della popolazione ed era ritenuta una delle più avanzate del settore.

Ma nella notte del 26 aprile 1986, durante una prova di manutenzione di routine e il conseguente test di sicurezza, nella centrale ci furono due esplosioni. La prima fece saltare in aria una lastra di cemento dal peso di 1.000 tonnellate, la seconda disperse nell’atmosfera 190 tonnellate di isotopi radioattivi. Fu uno dei peggiori disastri della storia.

Il gruppo operativo di liquidazione dell’incidente era diretto da Nikolaj Ryzhkov, primo ministro dell’Urss. Nel 1992 durante il cosiddetto “processo al Pcus” Rhyzkov dovette rispondere delle decisioni prese in quei giorni, molte delle quali ancora oggi suscitano reazioni contrastanti.

Le prime ore dopo la catastrofe

“Me lo ricordo bene quel giorno. Era un sabato, stavo andando al lavoro. Mi chiamò sulla linea interna il ministro dell’Energia Anatolij Majorec, dicendo che alla centrale di Chernobyl c’era stato un incidente, ma non sapeva i dettagli – racconta Ryzhkov -. Ordinai di chiarire che cosa fosse successo prima del mio arrivo in ufficio. Onestamente non pensavo che fosse scoppiato un reattore. Alla centrale gli incidenti capitavano: i generatori o le turbine andavano fuori fase, succedeva di tutto. Mi aspettavo qualcosa di simile. Quando invece mi riferirono che si trattava del nocciolo del reattore fu chiaro che la faccenda era molto seria, fuori dall’ordinario. Presi subito le prime misure. Due-tre ore dopo, alle 11, firmai un documento per creare una commissione governativa con a capo il mio vice Boris Shcherbin, purtroppo già scomparso. Alle 3 del pomeriggio la commissione era stata formata ed era ben organizzata: c’erano scienziati e responsabili di vari ministeri. Quello stesso giorno volarono a Chernobyl e sabato sera mi riportarono l’accaduto, dando il loro parere: tenuto conto che la città di Pripyat si trovava vicino alla centrale nucleare e ci abitavano 50.000 persone era necessario evacuarla subito. Diedi il permesso. I preparativi andarono avanti tutta la notte, alle 14-15 di domenica 27 aprile mi dissero che a Pripyat non era rimasto nessuno, tranne qualche cane”.

Sabato 26 aprile a Pripyat era giorno di matrimoni. Per più di 24 ore la popolazione non seppe che cosa era successo. La prima dichiarazione ufficiale dei media sovietici in merito alla tragedia fu trasmessa il 28 aprile. In quel momento i Paesi occidentali avevano già comunicato che era successo qualcosa, mentre la dirigenza sovietica taceva. Alla radio di Mosca la notizia dell’incidente era stata data per quarta, a Kiev per undicesima. Nell’edizione del programma “Vremya”, Chernobyl venne nominata dopo venti servizi. Il segretario generale Mikhail Gorbachev si rivolse ai cittadini con un messaggio pubblico trasmesso alla televisione 18 giorni dopo la catastrofe.

Nikolaj Ryzhkov, primo ministro dell&rsquo;Urss all&#39;epoca della catastrofe\nMaksim Blinov/RIA Novosti<p>Nikolaj Ryzhkov, primo ministro dell&rsquo;Urss all&#39;epoca della catastrofe</p>\n
Un gruppo di tecnici si prepara a un sopralluogo subito dopo l&#39;incidente&nbsp;\nIgor Kostin/RIA Novosti<p>Un gruppo di tecnici si prepara a un sopralluogo subito dopo l&#39;incidente&nbsp;</p>\n
I lavori per la messa in sicurezza della centrale\nVitaliy Ankov/RIA Novosti<p>I lavori per la messa in sicurezza della centrale</p>\n
 
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Le prime reazioni

"A notare la perdita furono per primi gli svedesi. La notte del 26 aprile i loro contatori mostrarono un aumento della radioattività da cui dedussero che da qualche parte c’era stata una fuoriuscita. E infatti era proprio così. Soltanto il mattino seguente siamo riusciti a venirne a capo. Tutto il resto sono solo congetture. Nessuno ha nascosto niente per tre giorni. Certo, le informazioni fornite alla popolazione erano poche e calibrate. Cosa avremmo dovuto fare, gridare a tutto il paese: ‘Gente, mettetevi in salvo!’ Davvero potevamo essere così stupidi da seminare apposta il panico, da far muovere centinaia di migliaia di persone chissà dove, magari proprio nella direzione in cui c’erano le radiazioni? Non eravamo così scemi. Bisognava evacuare le persone in modo ordinato. Non tutti però capivano che cosa fosse una fuga radioattiva. A Pripyat vivevano in gran parte persone che lavoravano nella centrale nucleare e loro sì che la conoscevano bene. Atterrai il 2 maggio e proseguii in macchina da Kiev, ci fermammo in alcuni villaggi più vicini alla zona contaminata. Una vecchietta si avvicinò a me e chiese che cosa stesse succedendo. Le dissi: ‘Radiazioni, cose sporche. Bisogna stare attenti’. E lei mi rispose: ‘Ma quale sporco, guardi queste patate come sono pulite’. Ecco qual era l’idea della gente, non capivano che la morte gli alitava sul collo".

"Il 2 maggio alcune fonti ci avevano informato della zona di contaminazione. In una riunione a Chernobyl decisi che bisognava evacuare tutti coloro che si trovavano in un raggio di 30 chilometri dalla centrale. Mettemmo un compasso sulla mappa e tracciammo il raggio d’azione. Quando la sera tardi lasciai Kiev vidi un centinaio di autobus venirmi incontro, pronti per portare via le persone".

La primavera e l’estate del 1986 nelle “aree di esclusione” e nei territori “a stretto controllo radioattivo” vivevano 400.000 persone. Le radiazioni arrivarono nei territori russi (solo in 4 centri abitati per un totale di 186 persone), ma soprattutto bielorussi e ucraini, dove la superficie complessiva della zona contaminata era leggermente superiore a quella di Mosca. Furono evacuati con successo subito 116.000 persone. 270.000 furono mobilitate negli anni successivi

I sopralluoghi a poche ore dall'incidente

"Non avevamo elicotteri con le protezioni anti-radiazione, ma bisognava fare dei sopralluoghi sul reattore. Così su un elicottero comune hanno messo delle lamine di piombo che non permettevano alle radiazioni di passare. Indossavamo le tute bianche, i caschi e in tasca avevamo i contatori Geiger, tutto qui. Finché stavamo a una certa distanza dal reattore suonava ma a intervalli lunghi. Appena ci avvicinammo i bip divennero più frequenti. Quando arrivammo sopra il reattore andò praticamente in tilt".

"Ma che cosa potevamo fare, non volare? Sapevamo di essere esposti alle radiazioni, ma a nessuno venne in mente di scappare. Rimasi due ore e poi andai via, i miei vice lavorarono a turno per qualche mese nella zona contaminata. I turni erano di 2 settimane, scoppiarono le polemiche. Quando li facevamo tornare si indignavano: ‘Perché? Vi sembriamo morti?!’. Ma eravamo inflessibili, avevamo le raccomandazioni dei dottori. Riportarli subito indietro".

"E ci siamo sentiti dire che li spedivamo nella zona a forza. Al contrario, era dura riuscire a spuntarla. Avevo sulla scrivania mille richieste di volontari che volevano essere mandati là. Capivano che c’era stato una catastrofe, volevano aiutare".

Dal giorno dell’incidente per un anno presero parte ai lavori di liquidazione 350.000 persone. Su consiglio degli esperti fu deciso di ricoprire il reattore scoperchiato con sabbia e boro. Quest’ultimo venne raccolto in tutto il paese e portato alla centrale con spedizioni straordinarie 

Il processo e la mancanza di informazioni

"Ci stavamo inoltrando in un mondo completamente sconosciuto. Nel 1979 gli americani avevano subito un incidente analogo nella centrale nucleare di Three Mile Island, ma avevano messo tutto a tacere. Nessuno ha condiviso con noi le informazioni ed eravamo all’oscuro di tutto. Ci hanno soltanto criticato. C’era la guerra fredda e non è arrivato alcun aiuto economico".

"Il 1 maggio alla riunione della commissione sapevamo già che non c’era iodio a sufficienza per i bambini e non c’erano gru con il braccio abbastanza lungo e una capacità di sollevamento tale da poter montare un sarcofago protettivo sul reattore".

"Quando ci fu il processo al Pcus mi ero già abituato alle accuse che ci rivolgevano. Mi convocarono in qualità di testimone, rimasi al banco per più di 7 ore. Anche se due mesi e mezzo prima avevo avuto un infarto non mi offrirono nemmeno una sedia per riposarmi. Uno dell’accusa aveva sulla scrivania tutti e 42 i protocolli firmati da me, pieni di post-it. Mi fece moltissime domande del tipo: ‘Compagno Ryzhkov, nel protocollo da Lei firmato si dice che nel villaggio x le radiazioni erano a livello x. Noi invece abbiamo altri numeri…’. Cercavo di sopportare, ma poi non mi trattenni. ‘Come posso io, Primo Ministro di un Paese di milioni di abitanti, sapere quanti rem erano presenti in uno sperduto villaggio? Non ero tenuto a sapere dettagli del genere, dovevo prendere altre decisioni. E Lei dove era durante la tragedia? E perché Lei, in quanto comunista, non è venuto ad aiutare come tutti gli ufficiali e i soldati, perché non ha fatto richiesta? Quale diritto crede di avere di farmi certe domande?’ Si azzittì. E non mi fece più domande. Continuo a credere che sia stato fatto tutto nel modo giusto".

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