È morto oggi all’età di 85 anni Aleksej Leonov, il cosmonauta sovietico che nel 1965 realizzò la prima passeggiata spaziale durante la missione Voskhod-2. Il presidente russo Vladimir Putin ha espresso parole di cordoglio attraverso il suo portavoce Dmitrij Peskov: “Si conoscevano bene - ha detto Peskov -, e Putin trattava Leonov con grande rispetto. Ammirava il suo coraggio”.
Leonov se ne è andato dopo una lunga e brillante carriera. Tra il 1970 e il 1991 ha lavorato come vice capo nel Centro di formazione per i cosmonauti; nel 1975 ha partecipato al programma test Apollo-Soyuz, la prima collaborazione tra gli Stati Uniti d'America e l'Unione Sovietica nel settore dei voli nello spazio. In quell’occasione Leonov venne messo a capo dell’equipaggio sovietico.
Dopo essere andato in pensione, nel 1991, ha lavorato per alcune realtà commerciali, dedicando molto tempo anche all’arte e alla pittura, con soggetti prevalentemente dedicati allo spazio. La sua figura sarà per sempre ricordata per essere stato il primo uomo a realizzare un’attività extraveicolare, ciò che in gergo viene definita “passeggiata spaziale”.
“Un volo spaziale richiede tutta la tua energia, tutte le tue conoscenze, tutte le tue capacità”, disse Leonov qualche anno dopo la sua straordinaria avventura. “Ho trascorso solamente 12 minuti nello spazio. Ma ora posso dire che ogni singolo minuto di quell’esperienza richiese un anno di preparazione sulla Terra”.
Nato nella periferia siberiana vicino alla città di Kemerovo (a 3.600 km a est di Mosca), divenne pilota dopo un duro lavoro di studio e addestramento. Il suo coraggio e la sua determinazione gli permisero di entrare nel corpo degli astronauti sovietici nel 1960, un anno prima del volo nello spazio di Gagarin.
Erano gli anni della corsa allo spazio. Gli anni in cui l’URSS sognava le stelle e rincorreva la Luna. Nel 1961 Yurij Gagarin portò a termine con successo la prima missione nello spazio; due anni dopo, nel 1963, l’URSS mandò in orbita la prima donna cosmonauta: Valentina Tereshkova. Nel 1964, poi, l’Unione Sovietica riuscì a mandare nello spazio un equipaggio composto da più persone. Il passo successivo non poteva che essere quello di far “camminare” un astronauta nello spazio aperto, esponendolo al vuoto infinito. E fu proprio il caso di Leonov.
“Durante gli incontri per selezionare i candidati, rimasi molto impressionato da Leonov”, racconterà poi nelle sue memorie Boris Chertok, un progettista di razzi che lavorò al programma spaziale sovietico. “Aveva delle abilità che ricordavano molto quelle di Gagarin. E aveva uno sguardo sveglio e attento”. Ma Chertok non fu l’unico a restare impressionato da Leonov. Fu così che la scelta dei sovietici per la nuova missione ricadde proprio su di lui.
“Le stelle si trovavano alla mia sinistra e alla mia destra, ma anche sopra e sotto di me”, ricordò anni più tardi Leonov, rivivendo quella magica (e tragica) esperienza e la vista mozzafiato che si apriva attorno a lui dopo aver compiuto il primo passo nel vuoto. Un’esperienza che avrebbe rivissuto per il resto della sua vita.
Leonov non era da solo in quel terribile viaggio a bordo della navicella Voskhod-2, comandata da un altro cosmonauta: Pavel Belyayev. Era il marzo del 1965. La missione prevedeva che Belyayev aiutasse Leonov a rientrare nella capsula in caso di complicazioni. E in effetti le cose andarono proprio così!
Poiché sulla Terra era pressoché impossibile ricreare perfettamente le condizioni dello spazio aperto, in quei 12 minuti che Leonov trascorse fuori dalla navicella, legato ad essa con una corda di 5,3 metri, la sua tuta iniziò improvvisamente a gonfiarsi, rendendo i suoi movimenti più lenti e difficoltosi. In quelle condizioni, con la tuta gonfia e quel carico inaspettato addosso, sembrava quasi impossibile rientrare nell’astronave. Vi erano serie possibilità che Leonov restasse bloccato nello spazio aperto per sempre!
“[Dopo essere rientrato nell’astronave] tolsi il casco e cercai di asciugare i miei occhi dal sudore che colava. Ma non ci riuscivo. Era come se qualcuno mi stesse versando dell’acqua sulla testa”, raccontò più tardi Leonov. Ma la sua avventura non era ancora finita: al rientro, il sistema di atterraggio automatico si ruppe e i cosmonauti si ritrovarono a dover effettuare la manovra manualmente. Per evitare un pericoloso schianto sulla Terra, riuscirono a portare la navicella sopra gli Urali del nord, e da lì si catapultarono fuori dalla navicella, con l’utilizzo del paracadute.
A causa di un malfunzionamento nei sistemi di comunicazione, i due cosmonauti si ritrovarono a dover sopravvivere per due giorni nei boschi degli Urali, a centinaia di chilometri di distanza dalla città più vicina. “Siamo rimasti lì seduti, con le nostre tute spaziali addosso, per quasi due giorni. Non avevamo altri vestiti con noi”, spiegò più tardi Leonov. Dopo una lunga ricerca, vennero individuati e riportati a Mosca.
“Avremmo potuto morire tre o quattro volte durante la nostra missione”, disse. Ma Leonov, a differenza di Pavel Belyayev, morto nel 1970 a soli 40 anni, condusse una vita lunga e ricca di soddisfazioni, sopravvivendo al paese che lo mandò nelle stelle.
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