Nel dicembre del 1943 i calmucchi (un gruppo etnico che viveva in Unione Sovietica, ndr) ebbero un tragico destino. Sospettati di collaborazionismo (l’infamante accusa era che combattessero a favore della Germania nazista e contro l’Armata Rossa), furono deportati collettivamente.
A due giorni dall’ordine firmato da Stalin, circa centomila persone furono strappate dalle loro case. Donne, bambini, anziani, furono caricati sui carri bestiame e spediti in Siberia. Molti di loro morirono per la fame, di ipotermia o di malattia, prima di arrivare a destinazione. In totale, oltre 40 mila calmucchi morirono come risultato della deportazione. Solo anni dopo, nel 1956, la popolazione fu riabilitata e poté fare ritorno alle terre natie.
Fonte: Elena Khovanskaya
Boris Ochirov, 81 anni
È a capo dell’Unione dei calmucchi vittime della repressione. Nella città di Elista (attuale capoluogo della Repubblica di Calmucchia, nella Federazione Russa, ndr) ha fondato il museo dei vagoni della deportazione. “Avevo appena quattro anni, ma mi ricordo la ressa incredibile, e come di tanto in tanto si guadagnasse un po’ di spazio, man mano che le persone morivano per la stanchezza e il freddo. I morti venivano ammassati su uno speciale vagone, il numero zero”.
“Quando i calmucchi furono riabilitati, alla radio trasmisero una canzone calmucca. Tutti la ascoltavano e piangevano. Finché la lingua calmucca sarà viva, vivrà il nostro popolo”.
Fonte: Elena Khovanskaya
Nina Boshomdzhieva (Badymkhalovna), 77 anni
Le purghe avvennero quando Nina era nella prima infanzia e la sua tragedia nella tragedia è che non sa niente della sua famiglia e da piccola neppure conosceva il suo cognome e il giorno del suo compleanno. Tutti gli adulti morirono nel corso del viaggio, per il gelo, ma la piccola sopravvisse. Nella regione di Tjumen, in Siberia, iniziò a lavorare all’età di 13 anni in una fattoria collettiva. Suo zio combatté la Battaglia di Stalingrado e, nel 1958, per puro caso si imbatté in una foto della nipote. Lei è tornata in Calmucchia dopo la riabilitazione e si è riunita con i parenti superstiti. Non è mai più tornata in Siberia.
Fonte: Elena Khovanskaya
Aljona Lidzhieva, 91 anni
Le persone non capivano cosa gli stesse accadendo. I vagoni non furono aperti per quattro giorni. Le condizioni erano inumane. Ogni tanto si poteva bere da dei secchi, prendendo l’acqua con le mani. Quando arrivarono alle baracche, non avevano nemmeno le scarpe. Ma i siberiani sono brava gente. “Ci dettero le prime cose, per le prime necessità, tra cui i portyanki, i tipici stracci dove avvolgere i piedi. Era una vita dura. Mangiavamo tutto quello che trovavamo, anche i cani”.
“Abbiamo lavorato tanto. Ora non posso stare tanto nello stesso posto o avere io mio giardino. Ma sono felice! Solo, mio marito non c’è più. Era un eroe. Ha cresciuto figli, nipoti e pronipoti”.
Fonte: Elena Khovanskaya
Nina Bovaeva, 89 anni
“Vivevamo bene, non ci mancava niente. Anche se certo sapevamo che la guerra era in corso. Un giorno arrivarono dei giovani soldati. Nessuno capiva cosa dicessero. Parlavano una lingua strana. Erano tedeschi. Volevano cibo e un posto per dormire. Io cucinai per loro. Non facevano paura, erano persone, soldati, e ridevano un sacco. La mattina, quando se ne andarono, mi regalarono della cioccolata. Avrei voluto provarla, ma loro erano in guerra contro di noi. Così la tirai ai maiali.
Nel dicembre del 1943, invece, arrivarono due soldati russi. Cucinai per loro. Ci dissero di mettere in una borsa le cose più importanti, perché ce ne saremmo dovuti andare molto lontano. Ma non dissero dove. A me dissero di non prendere le bambole, ma ci aiutarono con delle borse piene di scialli di lana”.
“Ho sempre vissuto in pace con gli altri e non ho mai avuto paura di niente nella mia vita”, dice Nina. Ha 7 figli, 11 nipoti e 11 pronipoti.
Fonte: Elena Khovanskaya
Aleksandra Galeeva, 85 anni
È sopravvissuta grazie a suo padre, nonostante lui avesse solo una gamba. Ma sapeva aggiustare le scarpe, e questo li aiutò. In Siberia mangiavano patate ghiacciate e spighe che erano come di gomma. Dall’età di 15 anni, Aleksandra lavorò come le altre donne adulte. Da quindici anni è cieca e tutte le notti prega per quelli che hanno bisogno di aiuto.
Fonte: Elena Khovanskaya
Bulgun Sakilova, 87 anni
Una mattina arrivarono due soldati armati. Il padre di Bulgun era a letto, malato. “Svelti! Ammazzate un montone o una vacca”, intimarono i militari. Avevano davanti un’odissea lunga 13 giorni. Lavorarono nella costruzione di una strada nel Territorio degli Altai, verso Semipalatinsk (oggi Semej, in Kazakistan), uno dei principali poligoni per i test nucleari sovietici. Quando il padre di Bulgun morì, fu semplicemente avvolto in un lenzuolo e lasciato nella neve. Fu seppellito solo in maggio, dopo il disgelo.
Fonte: Elena Khovanskaya
Sumyan Lidjanov, 66 anni
È nato in Siberia e ricorda solo in parte la sua infanzia. “Mi sovviene che degli adulti avevano in mano una rutabaga. Io dissi: ‘Datela a me!’ Non sapete cos’è una rutabaga? Beh, anch’io non sapevo cosa fosse un gelato. Comunque è una specie di rapa, di cavolo navone. Volevo provarla. Ma uno di loro la ributtò nel fango. Allora potevi beccarti dieci anni in un campo di concentramento per una stupidaggine del genere. La mia famiglia è tornata in Calmucchia nel 1957”.
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