Al bilancio del 25 marzo, in Russia i contagiati dal coronavirus sono 658 (con una crescita di 163 solo nell’ultimo giorno). Sempre il 25 marzo il Centro operativo contro l’epidemia ha annunciato la morte di due pensionati di Mosca, di 73 e 88 anni, positivi al test. Entrambi avevano patologie pregresse, ma potrebbero risultare le prime due vittime della pandemia di Covid-19 in Russia. Intanto però, nel Paese più grande del mondo, 29 persone sono riuscite a superare la malattia e a guarire completamente. Qui vi proponiamo alcune storie di malati e del loro periodo di cura e quarantena.
Sono andata a sciare in Austria, e sono tornata a casa l’8 marzo. Quella sera stessa la temperatura mi è salita a 37,6 e ho chiamato il medico. Il dottore è venuto mi ha fatto un prelievo. Il giorno dopo è tornato, e me lo ha rifatto, come da prassi. Sono passate altre ventiquattr’ore e mi hanno chiamato e mi hanno detto che i risultati “non gli piacevano”, e che quindi un’ambulanza sarebbe venuta a prendermi e mi avrebbe portato in ospedale. Mi hanno chiesto se con me vivessero dei figli minorenni, e io ho risposto di averne due, di 11 e 17 anni. Così quando sono venuti hanno preso anche loro.
All’arrivo in ospedale, mi hanno fatto molti test e mi hanno prescritto immediatamente degli antibiotici. I bambini hanno invece iniziato a riempirli di pillole antivirali. I medici sono rimasti a lungo in silenzio sul risultato delle analisi. Ci nutrivano abbastanza bene, mettendo il cibo dal corridoio in uno scompartimento speciale, che io aprivo dall’interno della camera per prenderlo. In generale, non c’era alcun contatto con il mondo esterno. Tutti i dottori che entravano in stanza avevano tute a scafandro che li coprivano completamente, e noi non potevamo uscire.
Solo l’ottavo giorno dopo aver effettuato il tampone ho scoperto che io e i miei figli avevamo il coronavirus.
Sono rimasta stupita dal fatto che la malattia avesse colpito anche i bambini. A casa, avevo cercato di rispettare tutte le precauzioni di sicurezza che mi avevano dato: avevo un asciugamano, una tazza, un cucchiaio e un piatto che usavo solo io. E dalla stanza uscivo solo con la mascherina. Le mani me le lavavo ogni secondo. Tutti i rubinetti e le maniglie li sanificavo con l’alcool. Comunque, in qualche modo si sono infettati. Hanno iniziato a darci antibiotici e ci hanno messo la flebo.
Avevo chiesto di separare me e i bambini all’inizio, perché credevo che non fossero malati e avevo paura di contagiarli. Quindi siamo nello stesso ospedale, ma in stanze diverse. I bambini sono rimasti asintomatici. Comunichiamo solo per telefono.
Il momento più difficile della quarantena in ospedale è la domenica. In questo momento è ancora più silenzioso del solito. Immediatamente ci si chiede: cosa fare quando la colazione è appena finita e il pranzo è ancora lontano?
Poi, quando le mie condizioni sono un po’ migliorate, ho iniziato a fare esercizi. Innanzitutto, esercizi di respirazione. Non ci ho capito granché, ma ripeto attentamente quello che spiegano nei video su YouTube. Ho anche iniziato a fare il plank. Quanto tempo resisto non lo dico, ma spero di migliorare. A livello intellettuale, qualche libro e film. Finalmente mi sono guardata “Parasite”.
Dopo alcuni giorni che ero ricoverata, il medico mi ha detto che l’ospedale aveva finalmente aperto il proprio laboratorio per i test per il coronavirus. Prima di allora, i tamponi venivano inviati a Novosibirsk [3.400 chilometri a est di Mosca], quindi l’attesa dei risultati era lunga.
Più che per me, mi dispiace per i dottori e le infermiere. Tutto il giorno in quelli scafandri è molto scomodo, e le maschere vengono disinfettate con la candeggina, quindi gli si irritano gli occhi.
Sono in ospedale da tre settimane, clinicamente sono guarita e anche i miei figli stanno bene. Tuttavia, per essere dimessi, ci devono essere due tamponi negativi al coronavirus. Quindi dobbiamo ancora aspettare.
Un giorno, verso la fine della cura, entrano due operai, e, lavorando con il trapano, installano una lampada germicida con filtro dell’aria.
“Questi affari li abbiamo già installati anche al 17° e al 18° piano nel fine settimana”, dicono, “visto che là di pazienti non ne sono rimasti”.
“Ma come?”, non mi trattengo dal chiedere “E dove sono andati tutti?”
Ridono e se ne vanno. Vorrei tanto andare a casa.
Mia moglie e io siamo rientrati in aereo il 10 marzo da Barcellona. Non c’era nessun controllo all’aeroporto; non misuravano neanche la temperatura. Abbiamo superato con calma il controllo del passaporto e siamo andati a casa.
Il 13 marzo, la mia temperatura è salita a 38.3, e il naso ha iniziato a colare. Ho subito chiamato il numero verde attivato dal Rospotrebnadzor [il Servizio federale russo per la difesa dei diritti e della salute dei consumatori], poi un’ambulanza. Quelli dell’ambulanza mi hanno fatto il tampone e se ne sono andati. Il 15 sono stato informato di essere risultato positivo al coronavirus e sono stato portato in ospedale. Allo stesso tempo, mia moglie si è rivelata negativa, per tutto il tempo in cui è rimasta chiusa in quarantena. Da ieri può uscire di casa.
La prima settimana non mi hanno dato nessun farmaco particolare. Mi hanno tenuto a riposo in ospedale, dove mangiavo, guardavo la tv, parlavo su skype con il mio tutor di inglese e con gli amici. Domenica 22 marzo mi hanno portato il farmaco ribavirina, che il più delle volte è usato nella cura dell’epatite C. Il dosaggio è stato cinque volte superiore alla norma: 10 compresse alla volta invece di due. La stessa infermiera era sorpresa da questo dosaggio, è corsa dal dottore di turno, che le ha confermato che non c’erano errori.
I pazienti in ospedale hanno la loro chat, dove discutono di problemi vari: oggi ci sono già 90 persone nella chat. Diversi pazienti nella chat si sono lamentati del fatto che anche dopo due di quelle compresse avevano mal di schiena, si sentivano stanchissimi, e avevano gli occhi secchi. Inoltre, dopo aver preso questo farmaco bisogna per sei mesi fare solo sesso protetto, e proprio ora io e mia moglie stiamo cercando di avere un figlio.
Così ho deciso di far finta di prendere le pillole, ma non le ingoiavo e le mettevo da parte. Il medico è tornato lunedì, e ha concordato sul fatto che non avevo bisogno di quelle pillole, perché le mie condizioni erano migliorate. Mi ha offerto un’alternativa: l’arbidol. Per ora non ho preso neanche quello, perché penso di essermi già ripreso. Mi sembra che il mio corpo abbia affrontato da solo il coronavirus e che non sia necessario interferire con esso.
Il 24 marzo ho fatto un altro tampone, e se il risultato sarà negativo il 29 ne farò un altro. Dopo due test negativi sarò dimesso. Spero di tornare presto da mia moglie.
Frequento corsi di avanzamento professionale all’estero, e per questo ho viaggiato molto in Europa negli ultimi mesi. Certo, ero molto preoccupata di potermi beccare il virus da qualche parte lì. Alla Berlinale [20 febbraio-1º marzo] a qualsiasi colpo di tosse o starnuto nella sala tutti saltavano in aria per la paura. Poi siamo partiti per Londra. Lì mi sono quasi completamente dimenticata del coronavirus: la città ribolliva di eventi come se nulla fosse: pub pieni, musical, nessuno con la mascherina, e solo del gel disinfettante per le mani quasi ovunque a ricordare il problema. Ma all’improvviso, verso la fine del nostro soggiorno, ci viene detto che il programma è stato sospeso e che dobbiamo tornare a casa. È iniziato il delirio. Compravo i biglietti e i miei voli venivano puntualmente cancellati: a un certo punto mi è sembrato di non poter sopportare lo stress. Durante il volo per Helsinki, la mia temperatura è salita. Ma ho pensato che fosse dovuto alla stanchezza e al nervosismo.
All’aeroporto Sheremetjevo di Mosca sono arrivata il 17 marzo. Sull’aereo misuravano la febbre a tutti, ma intanto a me era scesa, e ci facevano compilare dei moduli con i dati personali. I lavoratori in tuta erano chiaramente annoiati. Con il questionario, sono andata da dei tecnici di laboratorio, e ho chiesto loro di farmi il test. I miei tamponi di gola e naso sono stati prelevati e mi hanno messa in quarantena.
Sono rimasta in isolamento da sola a casa fino al 22 marzo. Con il passare dei giorni, ho iniziato a sentire i sintomi di una normale infezione virale respiratoria, niente di più. Un’ambulanza è venuta da me quella sera e mi ha portata all’ospedale di Kommunarka. Ero infatti risultata positiva al test. All’ospedale, mi hanno fatto delle analisi e mi hanno mandata a dormire.
La notte tra il 22 e il 23 marzo, la mia temperatura è salita a 38,4 gradi, ho tossito molto e sempre più forte. Fino a mezzanotte non sono riuscita a dormire. E controllavo costantemente la saliva per vedere se c’era sangue. Mi sembrava ormai di avere un pezzo di carne insanguinato al posto della gola.
A un certo punto non riuscivo a sopportare più la situazione e ho pigiato il pulsante rosso del campanello per far venire gli infermieri. I simpaticoni hanno deciso di farmi una flebo. L’ago è stato piantato in modo che mi faceva molto male, avevo la sensazione di stare per svenire. Sono scoppiata in lacrime, dicendo non avevo bisogno di niente.
Gli stessi operatori sanitari sono venuti da me la mattina per misurarmi la temperatura. Era già scesa a 37.6. L’intera giornata ho dormito. Quando mi sono svegliata, avevo sempre più tosse e catarro.
Improvvisamente, sono iniziati problemi di diarrea, quindi quel giorno ho dovuto rinunciare al pranzo. La mamma la sera mi faceva avere banane, mandarini e cioccolato. Ogni volta che mi ammalo ho sempre una gran voglia di cioccolato.
Il 23 marzo mi è stato detto che oltre al coronavirus, avevo la polmonite. La sera, hanno iniziato a trattarmi con antibiotici, azimitricina. Infermieri e medici hanno iniziato a mostrarmi molta attenzione: spesso entravano, collegavano il Wi-fi e promettevano persino di fare qualcosa con la temperatura della stanza, perché era soffocante.
Oggi, 24 marzo, alle 6 del mattino, mi hanno messo una seconda flebo. Tossisco un po’ di meno.
Ho 37 di temperatura, ma una terribile debolezza e letargia, ho costantemente voglia di dormire e sto a sedere con difficoltà. Il medico ha detto che ho un’intossicazione dopo la febbre alta. L’appetito è scomparso.
Di solito non mangio carne né prodotti lattiero-caseari, ma qui mi portano il latte. Mi limito a lasciare quello che non voglio sul tavolo. Mi è stato detto che le mie abitudini alimentari non saranno prese in considerazione, poiché tutto è già stato calcolato. Fortunatamente, i miei familiari mi fanno arrivare della frutta, quindi la mia alimentazione è diventata più facile. Ma i piatti a base di verdure sono molto buoni. Tutto è servito in confezioni sottovuoto, posate e tazze sono usa e getta.
Onestamente, non ho la forza né di guardare film, né di leggere, persino a stare seduta faccio fatica. Mi fanno tre flebo al giorno. Non appena migliorerò, spero di poter seguire delle lezioni. I ragazzi hanno già iniziato a studiare online, non voglio rimanere indietro.
Il 1º marzo 2020 il Rospotrebnadzor ha confermato il primo caso di infezione da coronavirus a Mosca. Il malato, il russo David Berov, era recentemente tornato dall’Italia. Ecco cosa ha scritto lo stesso Berov sulla quarantena e le cure.
“Sono stato messo in un reparto generale presso l’Ospedale № 1 di Malattie infettive a Mosca. Sì, là c’erano molte altre persone. In precedenza, avevo avuto contatti solo con alcuni membri della mia famiglia. Tutti sono stati messi in quarantena negli ospedali. Non hanno avuto nessun sintomo della malattia. Il loro tampone iniziale ha mostrato un risultato negativo.
Com’è organizzata la quarantena solleva molti dubbi. Inizialmente i miei parenti sono stati chiamati ed è stato loro detto che avrebbero fatto i tamponi a casa. Ma quando sono arrivati i medici, si sono presentati con la polizia, hanno detto loro che io ero positivo (anche se ancora mancava la conferma), e li hanno costretti ad andare all’ospedale per le malattie infettive e lì li hanno chiusi nel reparto”, ha scritto Berov su Instagram.
Il 5 marzo, al terzo tampone, Berov era ancora positivo al coronavirus.
“Nel sangue non c’era, lo hanno trovato nella saliva. Come mi dicono, è molto poco visibile, quindi ne hanno dubitato per tanto tempo. Come mi curano? In modo sintomatico. Se c’è un sintomo, lo trattano. Nel mio caso, una lieve tosse è guarita, tutto il resto va bene. La temperatura è scomparsa da tempo. Lo stato di salute generale è abbastanza normale”, ha scritto Berov.
Il 7 marzo Berov è stato dimesso dall’ospedale. Successivamente, ha rilasciato un’intervista al giornale online Lenta.ru, in cui ha parlato dell’atteggiamento in ospedale e di come si sente.
“Mi hanno trattato molto bene in ospedale. C’era la dovuta attenzione e empatia da parte del personale medico. […] Mi sembrava di avere un semplice raffreddore e niente di più. In linea di principio, non capisco assolutamente per cosa stavo male. Dopotutto, ho poi avuto risultati negativi nei test del coronavirus”.
A quanto dice, ora è tornato al lavoro e sua madre è andata in Crimea dai nonni “a respirare aria fresca”. Lui stesso afferma che il coronavirus merita di essere temuto.
“Non posso dire che non c’è troppo da preoccuparsi di questo virus. Comunque, anche se la mia storia è solo la mia storia, spero che tranquillizzi qualcuno”.
“Nel mio caso”, conclude, “l’immunità è stata più forte dell’infezione. Ma in generale, penso che del nostro corpo non siamo così padroni: ci sono così tanti virus e microrganismi diversi intorno a noi. Chi sa chi di loro incontreremo, come e quando, e quali saranno le conseguenze di questa interazione”.
Mascherina e tuta protettiva: Putin visita i malati di coronavirus
Per utilizzare i materiali di Russia Beyond è obbligatorio indicare il link al pezzo originale
Iscriviti
alla nostra newsletter!
Ricevi il meglio delle nostre storie ogni settimana direttamente sulla tua email