Che cosa intende un russo, quando dice “dopo la pioggia di giovedì”?

Kira Lisitskaya (Foto: CSA Images, kadirkaba, Stop Images/Getty Images)
L’espressione, a prima vista piuttosto enigmatica, risale ai tempi della lotta del cristianesimo ortodosso contro i resti della fede pagana…

“Dopo la pioggia di giovedì” (После дождичка в четверг — Posle dozhdichka v chetverg), “Dopo la seconda venuta (После второго пришествия — Posle vtorogo prishestvija), “Quando un gambero sulla montagna farà un fischio” (Когда рак на горе свистнет — Kogda rak na goré svistnet), “Quando le carote diventeranno carne” (До морковкина заговенья — Do morkovkina zagovenja) tutte queste frasi significano la stessa cosa, e cioè, che la probabilità di un evento tende a zero. Quindi, è come dire “quando voleranno gli asini” o “alle calende greche”.

Tuttavia, se nessuno, finora, ha mai visto un gambero fischiare o la seconda venuta di Cristo, la pioggia, in effetti, può capitare anche di giovedì. Allora, perché si dice “dopo la pioggia di giovedì” per dire “mai”?

Questo modo di dire risale ai tempi in cui la chiesa ortodossa si adoperava per sradicare le credenze pagane ancora vive nel popolo. Sebbene il Battesimo della Rus’ fosse avvenuto nell’anno 988, gli slavi continuavano a celebrare le festività pagane, in particolare la Maslenitsa (festa della primavera che ricorre nella settimana precedente la Quaresima) e la Notte di Ivan Kupala (festa celebrata in concomitanza con il solstizio d’estate). Alcune cose erano impossibili da estirpare, ma la chiesa cristiana cercava comunque di fomentare il rigetto del paganesimo.

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La locuzione “dopo la pioggia di giovedì” rimanda al culto di Perun, divinità slava del tuono. Il quarto giorno della settimana, era tradizionalmente dedicato a lui. Si credeva che, se la preghiera dei fedeli fosse andata a buon fine, giovedì stesso il dio del tuono avrebbe mandato la pioggia.

Nel cristianesimo, l’espressione “dopo la pioggia di giovedì” significava “non ti aspettare che la tua preghiera venga accolta da Perun”. Con questa frase, all’epoca, si sottolineava l’inconsistenza del paganesimo.

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