Le icone dei Vecchi Credenti, quei capolavori che nella Russia imperiale potevano costare la vita

Cultura
JOHN VAROLI
L’ex sindaco di Ekaterinburg Evgenij Rojzman ha messo in piedi una grandissima collezione di queste opere, che erano considerate blasfeme dalla Chiesa Ortodossa ufficiale dopo lo scisma della metà del Seicento, e per la realizzazione delle quali i pittori potevano essere condannati a morte

Per quanto strano possa sembrare, durante l’era imperiale, si poteva venire uccisi per l’aver dipinto queste icone. Ora invece valgono centinaia di migliaia di dollari sul mercato dell’arte, e in termini storici e culturali, non hanno prezzo.

Questa storia inizia negli anni Cinquanta del 1600, quando la Chiesa Ortodossa russa si divise in due: i Vecchi credenti (in russo: starovèry o staroobrjàdtsy), che restarono fedeli alle antiche regole e ai testi liturgici russi tradizionali; e i nuovi, che seguirono le riforme liturgiche del Patriarca Nikon. Con lo Stato russo saldamente dalla parte di Nikon e della Chiesa ortodossa ufficiale post riforma, i vecchi credenti furono dichiarati eretici e severamente perseguitati per la loro fede.

Essere un vecchio credente significava rischiare in ogni momento una conversione forzata all’Ortodossia ufficiale, ma una persecuzione ancora più dura attendeva chi dipingeva le icone dei Vecchi credenti. Un elemento chiave nella riforma di Nikon era stato proprio il cambiamento delle regole della pittura delle icone ortodosse e il Patriarca aveva richiesto che fossero fedeli agli originali greci. Questo è il motivo per cui molte vecchie icone russe vennero bandite.

Alcune icone subirono un totale divieto dopo Nikon. San Cristoforo era stato tradizionalmente raffigurato con la testa di un cane e venerato in questa forma. Nel 1722, tuttavia, la chiesa ufficiale ordinò di dipingerlo con una testa umana. Ma i Vecchi Credenti continuarono ad aderire al vecchio modo di dipingere questa icona.

Le “nuove” icone erano considerate eretiche dai Vecchi Credenti, motivo per cui erano pronti a pagare ingenti somme a coloro che le dipingevano: artisti che rischiavano la vita e la libertà. Oggi è davvero difficile per noi comprendere appieno l’importanza di queste immagini sacre per i credenti.

Alla fine degli anni Novanta del Novecento, gli esperti sono giunti alla conclusione che le icone della piccola città degli Urali di Nevjansk sono state l’apice dell’arte religiosa dei Vecchi Credenti. Nel corso di molti anni, Evgenij Rojzman (1963-), ex sindaco di Ekaterinburg dal 2013 al 2018, ha messo insieme la più grande collezione di icone dei Vecchi Credenti, la prima delle quali risale al 1734, mentre l’ultima al 1919.

“Gli esperti ritengono che alcuni pittori abbiano proseguito a realizzare le icone dei Vecchi Credenti fino agli anni Cinquanta, e io stesso ne ho trovato uno attivo fino al 1934”, ha detto Rojzman. “Nevjansk è stata l’ultima scuola di pittura di icone puramente russa, non influenzata dalle tradizioni dell’arte europea.”

Perché le icone di Nevjansk sono così speciali?

Lo stile di pittura di icone noto come “Nevjansk” è nato nei primi anni del XVIII secolo e ha avuto una nuova primavera all’inizio del XIX secolo, grazie allo sviluppo industriale negli Urali. Grazie alle ricche commissioni ricevute da agiati proprietari di fabbriche, mercanti e proprietari di miniere d’oro, segretamente Vecchi Credenti, i maestri di Nevjansk crearono magnifici capolavori di arte religiosa.

Nevjansk stessa, che oggi ha circa 23 mila abitanti, era allora un piccolo insediamento di Vecchi Credenti, con pochi laboratori artistici. La vita era dura per i pittori di icone: la polizia conduceva periodicamente rastrellamenti e perquisizioni e i maestri dovevano nascondere i loro strumenti del mestiere e le icone.

Questi artisti religiosi non dipingevano per vendere; dipingevano solo quando avevano ricevuto commissioni da parte dei Vecchi Credenti. Se non avevano ordini, non dipingevano affatto.

Oggi non sono sopravvissute molte icone di Nevjansk, e la collezione di Rojzman è la più grande del suo genere al mondo. Queste icone sono contrassegnate dal fatto che sono sfarzose e visivamente ricche, nell’esecuzione e nei materiali.

Come un ex sindaco ha costruito una rara collezione

Evgenij Rojzman afferma che il suo interesse per le icone dei Vecchi Credenti è nato quando aveva appena 15 anni. Nel 1999, Rojzman ha istituito il Museo delle Icone di Nevjansk a Ekaterinburg e ha aperto la sua collezione unica al pubblico. Per questo motivo, le icone di Nevjansk sono diventate parte della storia ufficiale dell’arte russa.

“A causa della persecuzione, queste icone erano uno strumento di autoidentificazione per i Vecchi Credenti”, aggiunge Rojzman. “Le icone determinavano chi faceva parte della comunità e chi era ne era fuori.”

Queste icone erano anche un mezzo di propaganda della fede. Prendete, ad esempio, “La decapitazione di Giovanni Battista”. Dal punto di vista degli Antichi Credenti, quando la Chiesa ortodossa adottò la fede modernizzata a metà del XVII secolo, la Chiesa fu “decapitata”.

Alcune icone hanno dettagli talmente minuti che possono essere visti solo al microscopio. “Ad esempio, ogni pelo di cavallo sugli zoccoli è tracciato in oro, così come ogni dettaglio sull’abito del prete”, dice Rojzman.

“La pittura di icone di Nevjansk è un fenomeno completamente a sé nella cultura russa e possiamo trovare l’intero periodo della sua esistenza nella collezione di icone di Evgenij Rojzman”, ha affermato Elena Lavrentjeva, restauratrice di icone presso l’Istituto di ricerca statale per il restauro di Mosca. “Ha decine delle prime icone di Nevjansk, della prima metà del XVIII secolo, che sono quasi impossibili da trovare nei musei statali e in altre collezioni; per quanto ne sappiamo, solo due delle prime icone di Nevjansk si trovano nei musei statali russi.”

Lavrentjeva ha lavorato alla collezione per sei mesi e ha stabilito che quasi tutte le prime icone di Nevjansk della prima metà del XVIII secolo sono state dipinte usando gli stessi pigmenti; circa 10 pigmenti in totale. Quando dipingevano i volti dei santi, i maestri di Nevjansk tra l’inizio e la metà del XVIII secolo usavano tecniche simili ai maestri di Mosca: ripetuti strati alternati della cosiddetta “belila” (pittura bianca) e “okhra” (giallo ocra)”.

“L’analisi chimica dei pigmenti dimostra che i pittori di icone degli Urali degli inizi del XVIII secolo usavano l’azzurrite sintetica, l’indaco, il cinabro, il piombo rosso, pigmenti organici rossi e vari tipi di ocra”, spiega la Lavrentjeva, aggiungendo che coprivano anche gli sfondi delle icone e le aureole dei santi con il cosiddetto “dvoinik”, una sottile foglia d’argento fusa con una sottile foglia d’oro.

Sulle orme dei Vecchi Credenti, una minoranza perseguitata per secoli