Gli atti terroristici di Parigi e del Sinai, e prima ancora l’intervento della Russia nella guerra civile siriana hanno alzato la posta nella crisi della regione e ormai nell’impegno internazionale nella lotta contro l’Is sono coinvolti sempre nuovi attori esterni (non della regione). Solo la settimana scorsa Gran Bretagna e Germania, che prima di allora non avevano manifestato alcuna intenzione di partecipare attivamente al conflitto, hanno deciso di intervenire.
Che cosa bisogna attendersi? Si sta davvero formando quella coalizione antiterrorismo di cui tutti parlano? È improbabile. La ragione principale è che gli scopi e gli obiettivi di chi aderisce alla coalizione divergono.
Tutte le opinioni |
La situazione risulta paradossale. Malgrado tutte le macroscopiche differenze, la posizione degli attori esterni (Usa, Francia, Russia, Gran Bretagna…) converge nell’identificare un unico nemico principale: l’Is, che si dovrebbe idealmente annientare, o come minimo, fermare. Per conseguire tale obiettivo occorre che s’intensifichi il coordinamento tra gli attori regionali (sia all’interno della Siria che in Medio Oriente in generale). In linea teorica dovrebbero essere proprio costoro a effettuare le maggiori azioni militari, ma qui emergono neanche a farlo apposta le divergenze nelle loro priorità. Per la Turchia la minaccia fondamentale è costituita dal problema curdo che è percepito come un pericolo ben più grave dell’Is. L’Arabia Saudita sembra temere in modo evidente più l’espansione dell’Iran sciita dell’avanzata dei seguaci di Al-Baghdadi. L’Iran sta facendo un gioco molto complesso nella regione all’interno del quale l’Is rappresenta solo una delle tante finalità. La tipologia degli avversari di Bashar Assad è estremamente diversificata e in essa rientrano anche gli estremisti islamici che però non riescono a rovesciare il suo regime. Gli altri Paesi della regione cercano affannosamente di mantenere il controllo della situazione e sono costretti a destreggiarsi. Non sempre l’Is viene percepito come il vero nemico.
La questione siriana |
Questo stato di cose esclude di fatto la possibilità di realizzare una vera e grande coalizione, ma in compenso delinea per le potenze esterne uno scenario poco gradevole. Tutti sanno che senza una vittoria sul terreno non si potrà sconfiggere l’Is e ne parlano. Si esorta a combattere le popolazioni del Medio Oriente, tanto più che in questa regione si è soliti condannare l’intervento dei “colonialisti”. E se anche si mettessero a combattere, non si potrebbe permettere che lo facciano tra di loro, anziché contro i terroristi. Ciò significa che diventerebbe indispensabile da parte della Russia, degli Stati Uniti, della Francia e degli altri Paesi rafforzare la propria presenza nella regione. Inoltre, è noto quali ripercussioni possano produrre gli interventi diretti in Medio Oriente.
Le ragioni di Mosca
Le motivazioni che hanno spinto la Russia alla campagna militare in Siria sono molteplici. La minaccia di una diffusione incontrollata del terrorismo naturalmente è il fattore principale. Un altro livello di lettura è quello del rapporto con il potere ufficiale siriano, un antico partner della Russia. Quest’estate è risultato chiaro come il regime stia esaurendo le sue risorse. Nel 2011 era molto più solido di quanto non si supponesse in Occidente, ma il conflitto incessante l’ha logorato. La caduta di Assad sarebbe percepita da tutti come una grande disfatta di Mosca.
A giocare un ruolo sono state anche ragioni di tipo più strumentale. Per esempio, l’aspirazione ad ampliare la sfera del dialogo con l’Occidente che negli ultimi due anni si è quasi completamente ridotto alla discussione sulla crisi ucraina e al processo di Minsk.
Tuttavia, le azioni russe in Siria vanno analizzate in un contesto più ampio. Mosca ha usurpato un diritto che negli ultimi 25 anni (dall’avvio dell’operazione “Desert storm”) è stato appannaggio degli Stati Uniti: il diritto di ricorrere alla forza per ripristinare il diritto internazionale, vale a dire di assolvere alla funzione di “gendarme del mondo”. La Russia si è inserita nell’ambito in cui si definiscono le gerarchie.
Come cambiano le regole del gioco
Il “mondo unipolare” sottintendeva che a dirigere le guerre “in nome della pace”, ossia i conflitti non direttamente collegati al conseguimento di obiettivi chiari e concreti, erano solo gli Stati Uniti con l’appoggio dei loro alleati. Mosca, avviando la campagna militare in Siria, ha modificato il rapporto di forze e le prospettive di risoluzione del più importante conflitto internazionale, senza la promessa di alcun beneficio materiale ed è questa la prerogativa di un’alleanza politica e militare superiore in grado di dettare l’agenda.
Un altro momento cruciale è che il conflitto in Siria conclude molto probabilmente la fase dell’approccio “umanitario e ideologico” alla regolamentazione delle crisi locali. Fino a tempi recenti l’elemento di volta delle discussioni sui conflitti interni erano le accuse di aver commesso dei crimini contro il proprio popolo e di aver represso ferocemente le proteste, ecc. Le autorità che si macchiavano di simili colpe venivano automaticamente incluse nella categoria dei leader che “avevano perso ogni legittimità” e ogni possibilità di dialogo con loro erano inammissibili e precluse. A Saddam Hussein e Mohammed Gheddafi è toccato percorrere questo cammino e ora è la volta di Bashar Assad. Ma oggi la componente umanitaria sembra passare in secondo piano rispetto a un approccio di tipo realistico. La suddivisione tra bianco e nero, tra buoni e cattivi è venuta meno ed è giunto il momento di negoziare con tutti.
La traiettorie di Vienna
A segnare una fase radicalmente nuova nella crisi siriana è stato il summit di Vienna. Dopo quello della maratona “nucleare” dell’Iran appare il secondo caso di negoziato con finale aperto, dove il format delle soluzioni viene definito nel corso della discussione e non è già prestabilito in modo che ai partecipanti non resta che discutere l’iter del suo conseguimento. Come si costruirà lo Stato siriano al termine del conflitto, nessuno lo sa ancora, ma in questo caso è bene che sia così. È chiaro che non esiste alcuna garanzia di successo, ma concettualmente è il percorso più saggio. Purtroppo, l’inasprirsi del conflitto russo-turco provocato dall’abbattimento del jet russo, ha inferto un duro colpo al processo che si stava delineando.
La Russia non ha né l’intenzione, né le risorse per condurre una lunga campagna militare in Siria e Mosca ha bisogno che vengano effettuate delle scelte politiche non meno degli altri paesi. Ora, è vero, non si può prescindere dal considerare la presenza della Russia in Siria ed è difficile immaginare che il Cremlino possa rinunciare a un’infrastruttura militare creata rapidamente così come gli Stati Uniti dopo la fine della missione non se la sono sentita di abbandonare completamente l’Afghanistan.
Camminare sul filo del rasoio
La Russia dovrà destreggiarsi per mantenere un delicato equilibrio. In primo luogo dovrà garantire la propria presenza geopolitica in Siria in futuro, indipendentemente da come si configurerà il potere in quella ragione. In secondo non potrà rompere le relazioni che si stanno sviluppando con l’Iran e per Teheran il mantenimento dell’attuale regime è di vitale importanza dato che suppone non senza fondamento che qualunque cambiamento potrebbe diventare fatale per la sua supremazia in Siria. L’epopea siriana è forse l’unico argomento a cementare questi rapporti, sotto tutti gli altri aspetti Teheran guarda con diffidenza alla Russia In terzo luogo, infine, la Russia non può trasformarsi in una grande potenza che fa gli interessi regionali dell’Iran così come hanno fatto, per esempio, per lungo tempo gli Stati Uniti con l’Arabia Saudita.
Tuttavia, l’escalation degli avvenimenti e l’inasprirsi della loro incidenza nelle ultime settimane ci porta a un’altra conclusione poco consolatoria. Il discorso non riguarda più la sola Siria, ma il futuro dell’intera regione e una regolamentazione della crisi siriana è impossibile senza un processo di ricostruzione dell’intero Medio Oriente. Tuttavia, questo è un obiettivo di portata molto più ampia che comporta rischi assai più elevati. Ma la Russia attuale, in realtà, non dimostra di temere tali rischi.
Fedor Lukyanov, è direttore del giornale Russia in Global Affairs e ricercatore presso l’Alta Scuola di Economia di Mosca
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