Maria Ivanova, regista del film documentario sui rifugiati siriani.
: Elena Kern/ ufficio stampaIl 24 ottobre a Beirut, capitale del Libano, è iniziato il primo festival del cinema russo, organizzato da un piccolo gruppo di appassionati e guidato dal produttore e regista Maria Ivanova. Al festival lei stessa ha presentato anche un nuovo film documentario sui rifugiati siriani.
Da dove ha preso il coraggio di andare in Medio Oriente a girare un film sui migranti?
Ho cominciato a girare il film a Berlino, in un campo profughi. Ero alla ricerca di una protagonista donna. Ma quando sono arrivata, mi hanno spiegato che le ragazze da sole non scappano dalla Siria, ma solo con i loro mariti o i parenti.
Poi ho iniziato a “cogliere” una persona interessante dal punto di vista visivo. Ho trovato il mio personaggio: Mohamed, 14 anni, inviato dai genitori da solo in Germania. Ha fatto tutto il viaggio da solo, così secondo la legge sul ricongiungimento familiare potrà recuperare i suoi parenti dalla Siria.
Durante le riprese, mi sono resa conto che sarei dovuta andare a Damasco, dove erano rimasti i genitori del ragazzo. A causa dei ritardi nella ricezione del visto siriano, io e il cameraman siamo andati in Siria passando per Beirut: per il Libano il visto non serve.Mentre ci conducevano lungo la strada, sapevo che a soli 10 chilometri si trovavano dei membri dell’Isis, proprio vicinissimo. Andavamo ad altissima velocità, a 200 km all’ora, e la macchina ha fatto una curva brusca per girare nella direzione opposta, quando il conducente ha visto un motociclista. Poi ho chiesto il perché e mi hanno spiegato che i terroristi di notte viaggiano spesso in moto.
Così siamo arrivati a Damasco. L'appartamento in cui ci hanno portato non era riscaldato, non c'era elettricità, né acqua calda. Alle tre del mattino ho sentito i primi bombardamenti.
Tutta Damasco è in questa situazione?
Io ero a sud ed era spaventoso uscire di casa. La gente aveva il terrore dipinto negli occhi, l’atmosfera era molto pesante.
Alla fine ha incontrato i genitori del suo protagonista, Mohamed? Come ha fatto a mettersi in contatto con loro in anticipo?
Sì, ci hanno accolto benissimo e offerto da mangiare. Possiedono tutti i mezzi di comunicazione e utilizzano i social network. Dopo l'incontro con loro, siamo tornati a Beirut e in Libano abbiamo visitato un campo profughi in montagna. Lì abbiamo girato il documentario per due settimane.
I campi libanesi lasciano un’impressione diversa rispetto a quelli tedeschi?
Certo. Nei campi libanesi non c’è nessuna condizione speciale. Nel film c’è un personaggio, un uomo con 17 figli. Vive in una tenda divisa in diversi spazi. Rammenda i buchi da solo, dormono sul pavimento. Nonostante le loro terribili condizioni, queste persone hanno provato a offrirci del cibo, hanno suonato l’oud, scherzato... Vivono nella speranza che torneranno, non pensano ad altro. Naturalmente, molti vogliono andare in Europa, compilano i moduli. Ma non prendono tutti.In generale, il Libano è un Paese insolito. Immaginate: in un territorio più piccolo della regione di Mosca coesistono 18 religioni diverse, 4 milioni di persone e 1 milione e mezzo di profughi siriani. Eppure non ho mai visto conflitti, per esempio, tra cristiani e musulmani. Tutti frequentano gli stessi ristoranti e vanno negli stessi cinema, tutto in amicizia.
Che film avete portato al festival in Libano?
Abbiamo completato il documentario proprio nei giorni scorsi e ho deciso di presentarne la prima proprio in Libano, dove abbiamo girato gran parte del materiale. Inoltre, i nostri partner, il canale televisivo Russia Today, portano due documentari: "Le donne contro l’Isis" e "Settore di contraddizioni".
La guerra nel Paese confinante si fa sentire in Libano?
Si sente quella precedente, la guerra civile. Ci sono edifici che riportano le tracce dei bombardamenti, ci sono molti militari, posti di blocco, a volte passano carri armati e pattuglie. Ma accanto a una casa in rovina può esserci una galleria d'arte moderna, lì accanto dei militari e poco più avanti un cinema. Questo Paese è come un mosaico variegato.
In Libano ti senti “leggero”, hai voglia di vivere nonostante alcuni momenti... La presenza dei militari, d'altra parte, crea un senso di sicurezza.
Breve intervista tratta da RIA Novosti
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