La Valle del Gizeldon, nell’Ossezia Settentrionale-Alania, offre molte più cose da fare rispetto a tante zone circostanti. Ma la maggior parte dei turisti ha in mente una meta ben precisa: la necropoli che sorge appena fuori dal villaggio di Dargavs.
I suoi sepolcri in pietra, poco meno di cento, servivano alle antiche famiglie ossete come ultima dimora nel loro cammino verso l’aldilà. Alcuni dei corpi riposano in sepolture a forma di barca, il che ha spinto gli archeologi a chiedersi se la popolazione di questa zona credesse in una qualche forma di guado di un fiume spirituale nel passaggio agli inferi. Una torre vicina, che sta lentamente cadendo in rovina, veglia sulla collina e non fa che aumentare la malinconia del luogo.
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Questo posto così isolato potrebbe sembrare il posto migliore per dimenticare tutte le preoccupazioni legate alla pandemia di Covid-19, ma i viaggiatori che cercano di non pensare più alle epidemie non avranno fortuna qui. A quanto pare, la necropoli di Dargavs un tempo fungeva da luogo di quarantena!
Le cripte sono ormai da molto tempo sulla collina (le date non sono certe, ma alcuni stimano che le prime siano state costruite tra il XIV e il XVI secolo) come sito commemorativo delle antiche famiglie ossete (o, a seconda di chi vi parla, ingusce). Ma quando un’ondata di pestilenze (molto probabilmente colera) colpì l’area nel XVIII secolo, la gente del posto ne fece un altro uso. Poiché la quarantena era diventata una questione di vita o di morte, le famiglie ricche costruirono strutture per ospitare i propri malati, mentre coloro che erano poveri e infetti si recavano a Dargavs per vivere nelle cripte.
E non solo, secondo alcune leggende popolari, anche l’origine del sito è legato a una pestilenza. Gli uomini del villaggio iniziarono a litigare per una bellissima donna che un giorno apparve misteriosamente a Dargavs. Lasciavano ogni lavoro incompiuto, cercavano ogni modo per proporle di sposarli e alla fine iniziarono a uccidersi a vicenda in duelli per il diritto alla sua mano. Anche i più anziani perdevano la testa alla sua vista. Le donne del posto, indispettite, la fecero passare per strega e gli uomini alla fine la uccisero per assicurarsi che solo Dio potesse averla.
Sfortunatamente, una pestilenza colpì la valle, come punizione per il loro peccato, e persino il suolo si rifiutò di accettare chi moriva. Furono quindi costruite tombe fuori terra, portando alla costruzione delle prime cripte ancora oggi in piedi.
Le strutture erano costruite con aperture basse, simili a finestre, dove i corpi venivano normalmente trasportati per il loro luogo di riposo finale. Le vittime del colera del XVIII secolo usavano questi ingressi per strisciare all’interno e poi aspettare che i loro parenti portassero del cibo. Poiché a quel tempo non esisteva una cura per molte malattie (per non parlare dei vaccini), le persone spesso vivevano tra le ossa di antichi cadaveri, fino a quando non si univano a loro. Alcune delle cripte hanno dei pozzi davanti: una leggenda locale dice che se si lascia cadere una moneta all’interno e colpisce una roccia durante la discesa, allora ci sono buone probabilità che le anime sepolte siano andate in paradiso. Per la maggior parte di chi passò la quarantena qui, quella fu l’unica via d’uscita.
Quindi, se vi sentite repressi per le misure di contenimento del Covid-19, immaginate di essere nati nell’Ossezia del XVIII secolo. Nessun tampone, nessuna mascherina, e neanche Netflix per aiutare a passare il tempo nei giorni di lockdown.
Ma le persone del posto sembrano prendere le epidemie vecchie e nuove con filosofia. C’è poco traffico nelle valli, soprattutto per via del calo del turismo, e la gente continua a pensare che il virus sia da qualche parte “là fuori”. A Mosca, forse, o nella vicina Vladikavkaz. Si vedono pochissime mascherine in giro e gli uomini si stringono ancora la mano quando si incontrano (in Russia, è un gesto meno comune tra le donne). Il relativo ordine precedente rimane intatto: se ti avvicini alla necropoli, dovrai pagare 100 rubli per entrare. Almeno fino a quando la cassiera non è in pausa o finisce il suo turno. In quel caso, non può importarle di meno di dove vai, e la visita diventa gratuita.
L’approccio rilassato alle questioni di salute nazionale (per quanto problematiche possano essere) è forse un segno che la valle ha visto l’“apocalisse” andare e venire troppe volte per farsi ancora impressionare.
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Il nome ufficiale della regione è Repubblica dell’Ossezia Settentrionale-Alania (in russo: Respùblika Sévernaja Osétija-Alànija), con Alania che è il nome di un antico impero da cui gli osseti sostengono di discendere. Islam Sasiev, direttore del complesso museale della necropoli, afferma che un fiume vicino, il Kizilka, ha preso questo nome (che significa “rosso” nella lingua locale) “presumibilmente dopo una battaglia tra le truppe alane contro l’esercito tartaro-mongolo nel 1395”. Scorse così tanto sangue da rendere rosso il fiume, mentre l’Impero sconfitto si ridusse alle dimensioni di poche valli. Continuò poi un saliscendi di battaglie contro gli ottomani, i tartari e altri nemici fino a quando la regione non fu annessa dall’Impero russo nel XVII secolo. La comprensione dei confini locali è stata comprensibilmente fluida.
La storia recente non è stata più gentile con l’Ossezia: è rimasta divisa tra Russia e Georgia quando l’Urss è caduta, e negli anni Novanta varie tensioni etniche (in particolare con la Georgia e nella vicina Inguscezia e Cecenia) hanno portato a incidenti come l’attacco alla scuola di Beslan nel 2004, e la guerra che ha coinvolto Ossezia del Sud, Georgia e Russia nel 2008. Le tensioni sono spesso aumentate e molti villaggi hanno da tempo fatto l’abitudine a occasionali esplosioni di violenza.
E questo è forse il motivo per cui Dargavs continua a comandare l’immaginazione: è un segno di resilienza tanto quanto di dolore. Può sopravvivere all’ennesima “fine del mondo” della sua lunga storia, proprio come noi sopravviveremo al virus.
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