Locomotive abbandonate e argini crollati: sono questi i fantasmi che si incontrano sulla Ferrovia 501, mai terminata (Foto: Alberto Caspani)
Ora o mai più. La Ferrovia 501, sinistramente nota come Strada della Morte, ha i giorni contati. Proprio come le migliaia di “volontari” che, fra il 1947 e il 1955, vennero inghiottiti nel gelido limbo artico che avrebbe dovuto collegare – senza soluzione di continuità - la penisola di Kola e la Chukotka. Con i sottomarini tedeschi pronti ad affiorare nei punti più impensati prima, sotto la minaccia della bomba atomica americana poi, disporre di una rapida via di comunicazione fra gli estremi settentrionali dell’Unione Sovietica divenne per Stalin una priorità assoluta.
Anzi, scatenò una vera e propria corsa contro il tempo, perché il gap atomico andava compensato facendo almeno leva sull’estrema mobilità delle truppe di terra e dell’aviazione. A distanza di oltre sessant’anni, l’orologio della storia non ha smesso di correre forsennatamente.
“Qui sta andando tutto in malora – riconosce Sergei Leonidovic, product manager per l’agenzia turistica Yamal Travel - e ogni inverno potrebbe essere l’ultimo per i resti della ferrovia. Il legno delle vecchie stazioni marcisce al disgelo, i blocchi delle rotaie vengono divelti dalle deformazioni del terreno, le torrette d’avvistamento s’accasciano su se stesse. Muoversi lungo il tratto fra Salekhard e Igarka, l’unico che all’epoca fu davvero operativo, è ormai come attraversare una terra di spettri”.
Nonostante l’attenzione veicolata da numerose mostre a tema e alcune pubblicazioni fotografiche (oggi consultabili anche presso il Gulag Museum di Mosca), il destino della linea 501 sembra segnato. Una delle ultime opere di mappatura è stata compiuta proprio da Yamal Travel nel 2008, eppure il logorio dei reperti risulta talmente avanzato che in pochi anni si sono perse molte più testimonianze di quanto sia accaduto negli ultimi decenni.
“Proprio a causa di questa precarietà il numero dei visitatori continua a crescere – sottolinea Leonidovic – sia fra i russi che fra gli stranieri, ma non si tratta affatto di una passeggiata. Occorrono almeno una decina di giorni per risalire i fiumi Parusovaya e Taz, dal momento che i circa 200 chilometri via terra sono troppo accidentati e quasi sempre immersi in acquitrini. Bisogna poi essere disposti ad accamparsi nella taiga, combattere ogni notte contro zanzare o zecche, sapendo di dover sostenere tratti in rafting e di non poter sfruttare altro periodo fuorché i mesi fra luglio e settembre. Non da ultimo, pesa il costo della spedizione: difficilmente si riesce a scendere sotto i mille euro”.
Se l’impatto economico può scoraggiare ancora qualcuno, il richiamo emotivo della Salekhard-Igarka appare però troppo forte. Mai come in questo progetto si sono incarnate così specularmente l’utopia del progresso e la disillusione dell’uomo: lavorare alla sua costruzione avrebbe dovuto far riassaporare la libertà dai campi di prigionia, perché nel Nord estremo non occorreva troppo filo spinato per tenere a bada l’anelito ai grandi spazi e, addirittura, la titanicità dell’opera avrebbe garantito sconti sulle pene comminate.
Giovani ingegneri e periti tecnici vi vedevano una sfida alle leggi fisiche, per i militari significava lottare in prima linea contro l’incombente minaccia dell’Occidente, i civili sognavano una rotta rapidissima mediante cui, un giorno o l’altro, avrebbero raggiunto il capo opposto del mondo.
“Cadevano come foglie di betulla – ricorda Viktor Kazimirskiy, uno dei primi escursionisti ad aver percorso nel 1975 il tratto Nadym-Salekhard in solitaria - chi subito, per le primitive condizioni di lavoro, chi negli anni, minato dal gelo e dalla fatica. Trovare sopravvissuti non fu per nulla facile: i pochi rimasti preferivano non parlare, temendo ripercussioni da parte del governo. Per loro la sensazione peggiore era però quella di aver speso la propria vita in un progetto assurdo, dal momento che la linea venne chiusa pochi anni dopo la morte di Stalin e, non volendo riconoscere l’insuccesso, si fece di tutto per occultare qualsiasi riferimento alla sua esistenza o a chi ad essa avesse contribuito”.
Oggi pensionato 61enne, cresciuto in Siberia per via dei nonni polacchi che furono costretti a trasferirsi alle appendici dell’Impero, Viktor ha sempre considerato la ferrovia 501 una finestra in presa diretta sul passato staliniano: lungo le sue rotaie ubriache ha ritrovato la volontà piegata dei lavoratori, nei ponti spezzati ha riconosciuto la cesura con la storia delle vecchie generazioni, ma al tempo stesso la Strada della Morte gli ha permesso di riassaporare la caparbietà dell’uomo socialista, che mai si arrende alle avversità della vita e della natura.
“All’epoca cercai di farmi raccontare qualcosa da un certo Aleksandr Lavrov – continua Viktor –, eroe di guerra per i suoi servizi nello spionaggio, condannato però a 15 anni di lavori per aver rubato vodka sul treno di rientro dal fronte. Niente. Non ci fu verso di sapere come avesse trascorso gli anni nel cantiere della ferrovia: l’unico modo per farsene un’idea, a quel punto, fu ripercorrere il tracciato da sé”.
Là dove gli incendi della foresta non hanno infierito o gli abitanti del posto non hanno sottratto legna per l’inverno, ancor’oggi ci s’imbatte in ponti che ben lasciano indovinare la meticolosità ossessiva dei lavori, così come le baracche senza finestre, o le lastre di metallo usate per occludere qualunque feritoia, provano l’accanimento con cui, ogni 5 o 7 chilometri, veniva ribadita l’unica e incontrovertibile realtà di quell’infinto esilio nel gelo artico.
Per giorni e giorni le ginocchia non fanno altro che affondare nel fango, le fronde delle betulle s’avvinghiano all’orizzonte, mentre lo stormire degli uccelli viene aizzato solo dal gorgogliare dei gommoni che attraccano nelle radure. Alle rare dacie spetta invece il compito di segnalare la presenza di qualche anima recondita, forse in cerca di funghi o semplicemente a caccia d’orsi.
“Pernottare ogni tanto in capanni protetti fu di grande conforto – aggiunge Viktor – perché dopo giorni d’isolamento nella foresta cominci davvero a pensare d’essere rimasto l’ultimo uomo sulla terra. Allora viaggiavo con molto denaro nascosto nel bagaglio, non sapendo che tipo d’emergenza dovessi affrontare e, soprattutto, se fossi mai riuscito a individuare la strada da percorrere: a chi mi ospitava dicevo però di non avere soldi, dal momento che temevo avrebbero potuto derubarmi. Un guardiano della vecchia linea telefonica mi offrì allora cibo, un posto per dormire e, prima di ripartire, addirittura i pochi rubli che aveva con sé, affinché potessi concludere il mio viaggio. Avevo il cuore gonfio: nascosi un mazzetto di banconote in casa sua e me ne andai un mattino, senza potergli dire più nulla”.
Sono passati anni dall’impresa di Viktor e il legno continua a marcire nella remota terra dei Nenets. Le carcasse delle alci si decompongono ogni estate. Ma la Strada della Morte non ha dimenticato ancora che cosa sia la pietà.
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