Kira Muratova è nata il 5 novembre 1934, 80 anni fa, nella città di Soroki, nel territorio dell’attuale Moldavia. Dopo aver studiato a Mosca, ha lavorato per la maggior parte del tempo a Odessa.
Nei primi film della Muratova i personaggi più riusciti sono quelli femminili, senza mai essere rappresentati in un modo edulcorato: un’attivista di partito, una madre separata ormai in età, una giovane senza marito… La regista non cerca di far coesistere tre storie diverse in un’unica vicenda esistenziale così da creare l’immagine di una wonder woman sovietica, come invece accade nel film di Vladimir Menshov, vincitore dell’Oscar, “Mosca non crede alle lacrime”. E forse è proprio a causa di questa mancanza di idealizzazione dei suoi personaggi sovietici che per molto tempo i film di Kira Muratova non hanno potuto essere mostrati nelle sale.
“Brevi incontri”, girato nel 1967, è il terzo film della regista. Il soggetto era semplice, ma molto sentito da un gran numero di spettatori sovietici. Una ragazza di provincia, Nadia, incontra un geologo di nome Maksim, interpretato dal leggendario poeta e musicista russo Vladimir Vysotsky. Nadia lavora come cameriera in una sala da tè, mentre Maksim ha una professione affascinante, suona la chitarra e possiede un’aura “romantica”. La ragazza s’innamora di Maksim, il nostro eroe la “incoraggia” e congedandosi da lei la invita a raggiungerlo. Nadia lo prende sul serio e parte in cerca di Maksim, senza sapere che il suo diletto ha già una moglie, Valentina Ivanovna (interpretata nel film dalla stessa Kira Muratova). Valentina Ivanovna è una funzionaria del comitato regionale del partito, firma documenti, tiene conferenze e vede il marito solo negli intervalli tra una spedizione e l’altra. Lei e Maksim si separano spesso per poi tornare di nuovo insieme e ogni volta Valentina Ivanovna lo perdona. Nadia si presenta da loro fingendo di essere una domestica arrivata da un villaggio di campagna, apparecchia la tavola e riparte.
Kira Muratova non ama che il suo cinema venga etichettato come femminista. La regista per molto tempo stentava a credere che potesse esistere una cinematografia del genere. “All’inizio ero perplessa, mi appariva una sciocchezza. Che senso aveva distinguere tra “cinema femminile” e “cinema maschile”? Il talento esiste o non esiste. Sono partita per Créteil piena di scetticismo e mi sono accorta con stupore che esisteva un cinema femminile terribilmente cinico, crudele. Film con schiave incattivite, logorate dalla frustrazione, che disprezzano tutto ciò che si è andato accumulando per anni dentro di loro fino a esasperarle. Ero esterrefatta. Così ho preso atto dell’esistenza delle tigri, delle meduse, dei ragni e anche del cinema femminile”.
Il segreto delle donne |
Malgrado queste esternazioni, i film di Kira Muratova si distinguono proprio per il loro sguardo insolito e “femminile” e il sentimento di partecipata comprensione verso gli altri. Non possono essere ascritti al genere del dramma famigliare o professionale e sono molto più complessi e al contempo più semplici di quanto sembrerebbe a prima vista. È questo il paradosso del suo cinema.
“Sindrome astenica”, il film girato nel 1989, vincitore al Festival del cinema di Berlino, non è stato compreso in Unione Sovietica. È stato definito una “diagnosi dell’uomo sovietico”, benché non contenesse alcuna allusione alla politica. L’eroina della prima parte è un medico, che precipita nella disperazione dopo la morte del marito e che vaga per la città in uno stato d’incoscienza, come in preda al delirio. L’eroe della seconda parte è un insegnante che ha perso qualunque interesse per la vita. È emblematico che sia il medico che l’insegnante, che sono persone con una funzione culturale e rappresentano istituzioni sociali di fondamentale importanza, risultino stanchi, provati, spezzati dalla vita. La mescolanza di elementi fiabeschi e irreali con la quotidianità è un altro dei paradossi della filmografia della regista. La Muratova ha di nuovo negato che questo sia un film sociale, specchio del proprio tempo; una critica al mondo sovietico che si stava disgregando sotto gli occhi di tutti.
Il film lascia irrisolti molti interrogativi e si ha la sensazione che le scene s’intreccino senza una logica, mentre i protagonisti parlano a sproposito come eroi cechoviani. Questa sensazione singolare deriva soprattutto dal tipo di montaggio dei film di Kira Muratova. “Amo molto il montaggio, è il mio passatempo preferito. Stare seduta in una sala di montaggio è per me una delle ragioni essenziali di vita”.
“L’accordatore”, girato nel 2004, con la partecipazione della sua musa, Renata Litvinova, è forse il suo film più comprensibile sul piano narrativo. Alla base del soggetto c’è l’espediente più amato dal cinema hollywoodiano: un’azione criminale. Una coppia di giovani amanti decide di truffare in modo elegante una signora ormai in età, che si lascia sedurre dall’idea del crimine per la somma piuttosto modesta di 8mila dollari. Malgrado il fascino dei giovani protagonisti, la vera eroina del film della settantenne Kira Muratova è alla fine proprio l’anziana signora truffata.
Nei suoi film Kira Muratova non dà vita a grandi ricostruzioni epiche e non medita sulle sorti della Russia, né tende alla “spiritualità” sia essa di tipo religioso o esistenziale; né porta sullo schermo veterani traumatizzati dalla guerra in Cecenia. In breve, ignora il repertorio prediletto dalla cinematografia russa contemporanea. Lo ignora e lo disdegna, ma ciò nonostante, il suo cinema riflette con estrema precisione la realtà russa. È proprio questo il suo paradosso.
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