La politica, giornalista e scrittrice Luciana Castellina (Foto: Michele Palazzi)
Avere 83 anni e un mal di Russia che non va più via. Luciana Castellina, un tempo esponente del Partito Comunista Italiano, già parlamentare italiana ed europea nonchè giornalista e scrittrice, non ha mai interrotto la sua ricerca – forse più esistenziale che politica – sul tramonto del Sol dell’avvenire, sul fallimento del modello sovietico verso cui, però, già negli anni ’60, non ha esitato a puntare il dito, tanto da essere radiata dal Pci nel 1970, come una sorta di eretica, assieme ad altri compagni del partito con cui ha poi fondato Il Manifesto.
Una riflessione che, da oltre 50 anni, si traduce in una sorta di pellegrinaggio periodico: la prima volta che la Castellina è stata in Russia era infatti il 1957. Da allora vi è ritornata spesso. Il suo viaggio più recente, compiuto nel 2011 insieme con una delegazione di giornalisti, poeti e scrittori italiani per la Fiera del libro di Mosca, l’ha portata ad attraversare il Paese sulla Transiberiana, dalla capitale moscovita fino alla città di Ulan-Ude.
Un’avventura che ha prodotto il suo ultimo libro: “Siberiana” (Nottetempo,
2012), un’analisi della società russa in forma di reportage, resa possibile
anche dal confronto con le sue visite precedenti compiute in oltre mezzo
secolo.
Dal 1957 al 2011, come ha visto cambiare
la società russa attraverso i suoi viaggi?
Nel 1957 c’era una
grande euforia, un’apertura e speranza di trasformazione del Paese: era
l’inizio dell’epoca di Krusciov, c’era stata la rivelazione del rapporto
segreto al XX Congresso. Si respirava molta libertà nella città: in quel
periodo si svolgeva il Festival della Gioventù, con migliaia di giovani; si
organizzavano balli serali con orchestre jazz addirittura dentro il Cremlino.
Era l’epoca dello Sputnik, del grande progresso. Insomma, sembrava che qualcosa
potesse cambiare. Sono tornata nel 1961, ritrovando la stessa atmosfera di
speranza nelle aule delle università affollate per i dibattiti e le letture dei
poeti. Poi è arrivato quello che io
chiamo il congelamento brezhneviano: anni terribili, che ho conosciuto molto
poco perchè nel frattempo, radiata dal Pci, nel ’70, non mi concedevano
il visto per ritornare in Russia. Quella brezneviana è stata l’epoca peggiore: ha
prodotto una società paralizzata nelle sue energie, un Paese meno repressivo ma
fermo, chiuso. Sono poi sono ritornata più volte negli anni ’80 e infine nel
’93, ultimo viaggio prima del 2011, in
una situazione di pieno caos con Eltsin che aveva appena messo sotto assedio il
Parlamento.
Nel suo libro parla del consumismo come una delle
forme più evidenti delle trasformazioni della Russia. Ce la descrive?
La prima volta che sono stata a Mosca, il
panorama visivo era del tutto diverso da quello attuale: non c’erano affissioni
pubblicitarie. Pochissimi i ristoranti, al massimo tre o quattro dove si
formavano lunghe file. A partire dagli anni ’80, invece, c’è stato un boom di
vetrine e ristoranti. Nel viaggio dell’86 sono riuscita a trovare un posto a
tavola senza problemi: mai successo prima di allora. Nel 2011, un’occidentalizzazione
ancora più spinta, un consumo uniforme: gli stessi negozi in qualunque città.
Non sono riuscita a trovare un colbacco ma non mancavano, persino in Siberia a
Ulan-Ude, le vetrine da cui campeggiavano griffe occidentali come Max Mara.
Il comunismo è ancora presente nella coscienza della
società civile russa o appartiene ormai solo alla letteratura?
È difficile
dirlo. C’è sicuramente la coscienza molto forte di non essere un Paese
qualsiasi, ma un Paese che ha avuto una storia importante e che soprattutto ha
vinto la guerra contro i tedeschi. Lo si
vede anche nelle città: non c’è una piazza dove non ci sia una statua di Lenin.
I russi non sanno invece più bene cosa sia il comunismo, anche perchè negli
ultimi trent'anni lo hanno vissuto nel modo peggiore. È rimasta comunque l’idea
che è la società a dover risolvere collettivamente i propri problemi, cosa che
invece in Italia non abbiamo mai avuto. È curioso che
in alcuni recenti sondaggi il 53 per cento della popolazione abbia nostalgia di Stalin. Si
tratta di una visione mitologica del passato, presente soprattutto nei giovani,
che non viene da un’esperienza personale, visto che le giovani generazioni
russe sono ormai nate dopo la fine dell’Unione Sovietica. Questo sentimento di
nostalgia, insieme al disincanto e ai fenomeni di violenza, è considerato da
intellettuali russi, come Prilepin, uno dei principali indicatori del vero male
della Russia: la crisi d’identità.
Da Krusciov fino a Putin. Com’è cambiato il rapporto della
società russa con il potere?
Si è fatto un
grande errore in Occidente a credere che la caduta del muro e quella del regime
sovietico sarebbero state accolte con le stesse reazioni che si sono avute in Paesi come la Polonia e l’Ungheria. In Russia non è stato così: il popolo è
stato anche molto scontento perchè sentiva di essere una grande potenza e si è poi
invece trovato ad essere un Paese in piena crisi. Ad esempio io sono tornata
più volte anche durante l’epoca di Gorbaciov e ho constatato che, mentre da me
e da altri era molto apprezzato, perchè portava democrazia e libertà, in Russia
invece è stato tra quelli più criticati, perchè ha fatto a pezzi la grande potenza
russa, un Paese che, pur essendo poco ricco, offriva comunque un sistema di
welfare, lavoro, casa, università. Non era cosa da poco. E invece il popolo
russo si è poi ritrovato in una situazione per alcuni anni drammatica, con
Eltsin alla guida del Paese e l’inflazione al 500 per cento.
Nel ’70 viene radiata dal PCI perchè sosteneva che il
comunismo sovietico ormai non era più riformabile.
Sì. Si tratta della
stessa tesi sostenuta dodici anni dopo, nell’81, da Enrico Berlinguer (il cosiddetto
"strappo con Mosca", ndr). Nel
frattempo si era sempre rimasti in attesa che, superate le difficoltà
economiche, la Guerra Fredda e tutto il resto, la Russia avrebbe finalmente
avuto capacità di rinnovarsi. Poi, con l’invasione di Praga, è stato ormai
chiaro che il comunismo sovietico era diventato un’altra cosa. Fu dovuto
soprattutto a questo evento la rottura, nonostante il Partito Comunista
Italiano avesse preso una posizione critica nei confronti dell’invasione di
Praga. Per me e gli altri però non era sufficiente che il partito ammettesse
che l’invasione di Praga era stata un errore, ma bisognava dire che in quell’episodio
c’era qualcosa di più profondo...
La sua storia con il comunismo sovietico si potrebbe
quindi definire d'amore e odio?
Sì. Anche se io e altri eravamo molto critici nei
confronti dell’Unione Sovietica, motivo per cui fummo radiati dal Pci, pensavamo
che il superamento del regime sovietico potesse avvenire da sinistra,
attraverso un processo di democratizzazione, non invece attraverso il peggiore
dei capitalismi possibili come invece è poi avvenuto. Se oggi c’è disagio e
disincanto nel Paese è perchè le persone hanno conosciuto il capitalismo più
selvaggio, il peggiore, che ha provocato diseguaglianze e messo in campo più
che una privatizzazione, un furto storico della proprietà collettiva ad opera
degli stessi attori della nomenclatura brezhneviana che ha poi prodotto i nuovi
ricchi.
Perchè un comunista oggi torna in Russia?
Si torna. Anche
per cercare di capire perchè è finita così. È una ricerca che va fatta,
soprattutto per un Paese come la Russia che ha subito cambiamenti epocali. La
cosa assurda è che questa riflessione sulla fine del comunismo russo, tranne
che dagli intellettuali, non è stata ancora mai fatta nemmeno dagli stessi
comunisti russi, che comunque hanno circa il 22 per cento dei voti, nè dal resto del Paese che non si
considera comunista.
Vi tornerà nuovamente?
Sì, dovrei
ritornare per un periodo più lungo, per insegnare in un’università. Dopo la mia ultima esperienza, se dovessi
dare un suggerimento, consiglierei soprattutto di visitare la Siberia: è una
terra che offre un viaggio emozionante dove, lungo la Transiberiana, si
attraversano tutti i luoghi un tempo dilaniati dalla guerra civile e dove le
comunità sono rimaste, rispetto agli abitanti delle grandi città come Mosca,
più simili a come erano un tempo.
Pensare oggi a una rivoluzione contro gli effetti della
crisi economica mondiale sarebbe una chimera, una strada percorribile o una profezia?
Le rivoluzioni si
possono fare ma devono essere il frutto di una maturazione politica, culturale e
sociale molto profonda e lunga. Il Paese dove ci sono meno condizioni è proprio
la Russia. La rivoluzione nasce da un processo storico: è questo che in Italia
ci ha insegnato Gramsci ed è per questo che siamo stati così diversi dai russi.
L'intervista in versione ridotta è stata pubblicata sul numero cartaceo di "Russia Oggi" del 28 febbraio 2013
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