Che fine fecero i sabotatori tedeschi paracadutati negli Urali?

Heinrich Hoffmann/Mondadori/Getty Images
Con l’Operazione Ulma i nazisti puntavano a distruggere fabbriche del complesso bellico sovietico molto lontane dal fronte, ma qualcosa andò storto

Nel febbraio del 1944 i servizi segreti del Terzo Reich tentarono di organizzare una serie di atti di sabotaggio nelle aziende militari sovietiche, situate in profondità nel territorio dell’Urss.

I sabotatori furono reclutati tra gli emigrati russi e i prigionieri di guerra che avevano accettato di collaborare con i tedeschi. Il gruppo selezionato fu vestito con uniformi dell’Armata Rossa e il 18 febbraio 1944 fu mandato in direzione degli Urali a bordo di un aereo Junkers Ju-52.

L’operazione, che ricevette il nome in codice di “Ulma”, fu preparata dal “sabotatore N.1” del Reich, Otto Skorzeny, che aveva partecipato anche alla liberazione di Mussolini dalla prigionia del Gran Sasso nel settembre 1943, con l’operazione Quercia.

Sin dall’inizio, però, l’operazione Ulma andò storta. Lo sbarco era previsto nei pressi della città di Molotov (oggi Perm), ma per un qualche motivo il gruppo fu paracadutato quando al punto di arrivo mancavano 300 km.

Per un mese il gruppo vagò nella foresta; tre dei sette sabotatori morirono di freddo, il comandante del gruppo, l’Hauptscharführer delle SS Igor Tarasov, affetto da gravi conseguenze dell’ipotermia, si suicidò.

I restanti tre rimasero nella foresta fino all’inizio dell’estate, dopo di che si consegnarono alle autorità sovietiche. Vista la mancanza di notizie, i tedeschi annullarono la seconda fase dell’operazione che prevedeva l’invio di un altro gruppo di sabotatori.

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