Assedio di Leningrado, così il “Corridoio della Morte” salvò la città dalla fame

Storia
BORIS EGOROV
A partire dal 1943, questa ferrovia diventò il percorso principale per fornire cibo alla metropoli ancora accerchiata dai nazisti. Ma i tedeschi la vedevano distintamente dalle alture che controllavano e la bersagliavano di colpi di artiglieria

Durante la Seconda Guerra Mondiale, per ben sedici mesi Leningrado (oggi San Pietroburgo) dovette sopravvivere in un serrato accerchiamento organizzato dalle truppe tedesche e finlandesi. L’unico collegamento tra la città e il resto dell’Urss era praticabile attraverso la Strada della Vita che passava per il Lago Ladoga, che non riusciva però certo a soddisfare pienamente tutti i bisogni di una grande metropoli.

I ripetuti tentativi di rompere l’assedio dell’affamata Leningrado fallirono, finché, finalmente, all’inizio del 1943, le cose per l’Armata Rossa si misero bene. Il 18 gennaio, durante l’operazione Iskra, le truppe sovietiche sfondarono lungo la sponda meridionale del Lago Ladoga un corridoio terrestre lungo 33 km e largo solo 11 km, che collegò la città travagliata con il “continente”.

Leningrado stava aspettando disperatamente treni con cibo. Mentre le battaglie non erano ancora finite, gli operai sovietici già iniziarono qui la costruzione di una linea ferroviaria, che  diventò ufficialmente nota come “Via della Vittoria”. Ma molti la conoscevano con un nome diverso: “Corridoio della Morte”.

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Compito complicato

Per quanto ci provassero, le truppe sovietiche non riuscirono a espandere la testa di ponte liberata, e per la posa dei binari ci si dovette accontentare di una stretta striscia di terra. L’area estremamente paludosa e accidentata era ben visibile dalle alture di Sinjavino occupate dal nemico (l’Armata Rossa se ne impossessò solo nel settembre del 1943) ed era bersagliata dal suo fuoco.

I lavori iniziarono il ​​22 gennaio, appena quattro giorni dopo lo sblocco dell’assedio, in condizioni di bufere di neve e continui colpi di artiglieria e mortai. “Neve fino alla cintura, freddo estremo, e sotto la neve c’è l’acqua che schizza”, ricordò il comandante del 57º battaglione ferroviario, il maggiore Jascenko. 

“I veicoli non riuscivano a camminare. Allora risultarono utili i sacchi. Ci si versava il terreno di riporto da una cava, e poi si portavano sulle spalle verso il punto dove costruivamo la ferrovia. Il terreno si portava anche sulle slitte. Inoltre, per il trasporto del terreno adattammo anche una specie di carrozza gommata tedesca. Facemmo un terrapieno, ma cominciò a sprofondare nella palude. Quindi dovemmo prima fare una pavimentazione di legno sulla torba e solo dopo cominciare a versare il terreno. Il giorno non bastava, la gente lavorava anche di notte”.

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Per di più, la ferrovia doveva essere posata attraverso il fiume Neva. Il 24 gennaio iniziò la costruzione di un ponte basso, senza campate navigabili. Dopo qualche tempo, 500 metri a valle, si iniziò a costruire un altro ponte, alto 8 metri e già in grado di lasciar passare le navi.

Gli attacchi nemici ai ponti praticamente non si fermavano. Durante il restauro di un ponte danneggiato, entrava in esercizio quello di riserva.

Corridoio della morte 

Il primo convoglio col cibo arrivò a Leningrado già il 7 febbraio. I treni partivano di notte, ma nel frattempo i carichi venivano spediti anche nella direzione opposta: le fabbriche che continuavano a lavorare in città fornivano al fronte i loro prodotti a destinazione militare.

Molti operai, impiegati e soldati che sorvegliavano la ferrovia preferivano chiamarla in modo non ufficiale: Corridoio della morte. Durante la sua costruzione, non ci fu nemmeno un giorno in cui sotto il fuoco nemico non morissero alcune decine di persone. 

La gente continuava a morire anche dopo che questa importante rotta logistica aveva cominciato a funzionare. Per ridurre al minimo le perdite, intervenne una squadra di movieri con lanterne, che, nascondendo la luce agli osservatori nemici, avvertivano i ferrovieri dei danni ai binari o della distruzione di un treno davanti.

Il tratto più pericoloso della ferrovia era considerato il 30º chilometro, dove finiva il bosco e iniziava una radura ricoperta di piccoli arbusti. Qui i treni sovietici erano in piena vista, il che costringeva i macchinisti  a cavarsela in tutti i modi possibili.

“Facevamo così: andando per la foresta, acceleravamo il più possibile e, una volta raggiunta l’area aperta, chiudevamo il regolatore”, ricordò il macchinista Vasilij Eliseev. “In questo modo, il carbone nella bocca del forno si riduceva in cenere e il fumo non usciva più. Senza fumo e vapore, la locomotiva andava fino al chilometro successivo, dove iniziava la discesa, e il convoglio percorreva diversi chilometri per inerzia. Poi si doveva riaprire il vapore. Vedendolo, i nazisti immediatamente iniziavano a sparare. Bisognava di nuovo accelerare fortemente il treno, richiudere il regolatore e muoversi per inerzia per un certo tratto. I nazisti, avendo perso il loro punto di riferimento, cessavano il fuoco finché non identificavano nuovamente il bersaglio. E il macchinista ripeteva instancabilmente la sua manovra, giocando con la morte”.

In primavera, oltre ai tedeschi, apparve un altro nemico: il disgelo. La Strada della Vittoria, posata in inverno attraverso paludi e ruscelli ghiacciati, iniziò ad allagarsi. Giorno e notte, sotto il fuoco nemico, gli operai ripristinavano la ferrovia, però i treni dovevano attraversare l’acqua quasi come anfibi.

Costi umani inestimabili

Leningrado si accorse subito dell’importanza della “Strada della vittoria”. Un solo convoglio ferroviario portava in città più cibo di quello che veniva fornito lungo la “Strada della vita” in 24 ore.

Dal febbraio 1943 fino al completo sblocco dell’assedio nel gennaio 1944, questa ferrovia, unica nel suo genere, vide transitare 4.729 treni. Effettuava il trasporto del 75% di tutti i carichi portati in città (il 25% veniva inviato attraverso il Lago Ladoga).

Dopo che nel marzo 1944 nei territori liberati fu ripristinato il collegamento ferroviario di prima della guerra, la Strada della Vittoria smise di operare. Durante l’intero periodo del suo funzionamento, qui furono colpite da bombe e bruciarono circa 1.500 unità di materiale rotabile. Solo di ferrovieri ne morirono poco meno di duecento, mentre il numero di operai, militari e civili sfollati morti lungo la linea è incalcolabile.

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