“Továr výbrosili”. Questa semplice frase ha un senso molto diverso per un cittadino della Russia contemporanea e per un cittadino sovietico degli ultimi anni dell’Urss. Oggi, riferita a un negozio o a un supermercato, un giovane russo la intenderà come “hanno tolto un determinato prodotto”; nel senso di “l’hanno buttato via”. Magari perché scaduto, invenduto per l’abbondanza di merci. Allora, invece, questa espressione sarebbe stata inequivocabilmente interpretata in senso opposto (visto che il verbo “vybrosit” significa anche “metter fuori”): “Hanno tirato fuori la merce”.
In quegli anni, infatti, gli scaffali dei negozi erano tristemente vuoti, e le persone aspettavano quando la merce veniva “messa fuori”. E c’era da affrettarsi: in men che non si dica sarebbe di nuovo finita, a volte in meno di dieci minuti, a volte in un paio d’ore. Sempre che quel prodotto arrivasse davvero nei negozi e non prendesse prima l’altra strada: quella del mercato nero.
Nell’ultimo lustro di vita dell’Urss la penuria di beni di consumo divenne totale e tristemente abituale. L’economia sovietica pianificata non riusciva a tener conto dei reali bisogni delle persone. Nel polveroso emporio di qualche remoto villaggio montano del Tagikistan poteva essere messo in vendita un costoso abito di alta sartoria, in una sola taglia e in un solo colore e assolutamente senza mercato lì. Il monopolio statale su tutto, la mancanza di un settore privato, la pianificazione centralizzata e i prezzi fissi non regolati dalla domanda e dall’offerta portarono a una cronica carenza di beni di uso comune, dalla carta igienica alle arance, dal sapone ai fiammiferi.
Per ottenere ciò di cui avevi bisogno, dovevi ricorrere a vari trucchi. “Le persone erano piene di risorse, conoscevano il sistema; chi chiamare e come ottenere cosa”, afferma la blogger Ekaterina, la cui infanzia è stata trascorsa ai tempi dell’Unione Sovietica. “Ma allo stesso tempo era snervante e frustrante. Conosco bene la nostra storia familiare: come siamo stati costretti a ridipingere e incollare i sacchi di patate sul muro, visto che non si trovava carta da parati in commercio”.
Nel film per la tv sovietico “Ljudi i manekeni” (ossia: “Persone e manichini”;1974-75), strutturato come una serie di monologhi con i passeggeri di un tassista moscovita, interpretato da Arkadij Rajkin, il protagonista nota velenosamente: “Guarda in teatro, quando c’è una première. Chi è che siede in prima fila? Le persone importanti ci siedono: i direttori di magazzino, i direttori dei negozi… Tutti i potenti della città amano i dirigenti dei magazzini…”.
L’amicizia con queste persone valeva infatti oro, perché loro sapevano esattamente cosa sarebbe apparso nei negozi e quando. Tutti cercavano una tale amicizia, o qualcuno che avesse tali amici. “Poniamo che la sera consegnassero dei salumi, di cui c’era storicamente un grande deficit, in un negozio. Una delle commesse se lo lasciava sfuggire con un’amica. Quella correva con la notizia ‘da domani ci saranno i salumi in vendita’ da un’amica, e poi lo diceva a sua sorella, alla suocera, a un parente, all’insegnante di suo figlio e al suo capo, e tutto questo in grande segreto. Di conseguenza, quella sera stessa, una folla di persone si radunava di fronte al negozio di alimentari”, ha raccontato Rajsa Kobzar, di Krasnojarsk, che ha lavorato come commessa dietro al bancone per più di quarant’anni.
Tuttavia, anche le “notizie riservate” della prossima “consegna” non garantivano di ottenere la merce tanto desiderata. Parte integrante del deficit erano le lunghe code. A volte ci si metteva in fila già durante la notte. Il numero della posizione occupata veniva scritto sul palmo della mano a penna, e c’era anche chi lo faceva per business, occupando un buon posto in fila, solo per venderlo in seguito.
“Sono rimasto in fila per quattro ore per comprare una giacca a mio figlio. Lui era al caldo con la mamma e io sono stato quasi schiacciato dalla folla nervosa che spingeva verso le porte chiuse. Facevano entrare 10-12 persone alla volta. Il negozio di abiti per bambini era di fronte al commissariato e alla fine due poliziotti si sono avvicinati, allarmati dalle grida, per fare un po’ di ordine e far sì che la porta non fosse sfondata. Ma dopo poco la porta ha comunque ceduto”, ricorda un residente della regione di Mosca che si firma su internet con il nickname Iris.
I vicini di casa spesso si accordavano e stavano in fila per prodotti diversi in negozi diversi, e poi si scambiavano “la merce”.
“Da noi i prodotti di cui c’era penuria venivano distribuiti solo durante l’orario di lavoro e non facevamo mai in tempo a comprare niente. Anche perché i borsaneristi andavano immediatamente ad acquistare la maggior parte della merce sottobanco”, ricorda Tatjana, di Kaluga.
Il commercio illegale (“spekulatsija”) era un reato in Unione Sovietica: per questo si poteva finire in prigione da due a sette anni. Ma per coloro che erano disposti a correre dei rischi, era una miniera d’oro. Per mancanza di tempo e di scelta nei negozi, la gente comune acquistava molto spesso beni da loro. Gli “spekuljanty”, di regola, erano in combutta con i direttori di magazzini e negozi. Il Dipartimento contro l’appropriazione indebita della proprietà socialista (OBKhSS) organizzava spesso operazioni per arrestare sia gli uni che gli altri. Ma anche gli agenti alle dipendenze di questo dipartimento soffrivano per la carenza di merce, e quindi non di rado erano i primi a essere corrotti e ad avvertire i negozi dei controlli in arrivo, in cambio di salumi, pesce e altri prodotti.
Chi commerciava in beni importati era detto “fartsovshchik”. Era semplicemente impossibile comprare dei prodotti occidentali nei negozi sovietici, ad eccezione che nei negozi specializzati “Berjozka”, dove si potevano spendere dollari ufficialmente guadagnati in trasferte di lavoro all’estero da diplomatici, tecnici e militari; quindi da una percentuale molto bassa della popolazione. I beni stranieri sogni proibiti per i sovietici andavano dalle banali gomme da masticare alle sigarette estere, dalla tecnologia ai jeans.
Il “fartsovshchik” acquistava queste merci direttamente dagli stranieri presenti in Unione Sovietica, o da coloro che erano in stretto contatto con loro per motivi di lavoro (tassisti, diplomatici, guide, traduttori).
I jeans stranieri potevano essere acquistati da un fartsovschik per 150 rubli, quando lo stipendio mensile medio negli anni Settanta e Ottanta andava dagli 80 ai 200 rubli. Come gli spekuljanty, anche i fartsovshchik erano fuorilegge e rischiavano il carcere, ma avevano creato un intero impero commerciale illegale.
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Infine, era possibile andare a cercare in un’altra città alimenti o merce che nella propria non si riuscivano a trovare. In Unione Sovietica c’erano infatti città ad “alta offerta”, dove, a differenza delle province, la situazione con la presenza di merci sugli scaffali era migliore. Queste erano Mosca, Leningrado (oggi San Pietroburgo), le capitali delle repubbliche dell’Unione, e le città “chiuse” con importanti industrie di importanza statale. Pertanto, coloro che non trovavano quello che volevano nei negozi della loro città, non di rado prendevano il treno o l’autobus fino alla città più vicina di categoria di approvvigionamento più elevata.
“Durante il periodo di carenza di merci, le persone andavano a Mosca per tutto e rimanevano in fila per 4-6 ore. Era ormai una consuetudine. Per prima cosa, si andava a comprare i vestiti in grandi magazzini come il Gum, lo Tsum, il Passazh Petrovskij, in centro; o il “Moskvichka” o il “Sintetika” sul viale Kalininskij (oggi, Novyj Arbat; ndr); poi la sera era il momento dei piccoli negozi di alimentari su via Pjatnitskaja, dove si andava in cerca del set tipo: salumi, burro, pollo di importazione, maionese in vasetti di vetro e caffè macinato fresco. Per questo, il treno suburbano che ti riportava a casa odorava sempre di caffè, di arance, e di salumi…”, ricorda Iris.
Tuttavia, anche a Mosca tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta il problema del deficit di merci si intensificò. Così le merci iniziarono a essere vendute solo a chi era in possesso di un documento che comprovasse che si era residenti nella capitale. Non mancavano i falsi documenti, ma il flusso dei treni carichi di provinciali con sacchetti pieni di salsicce e salami si assottigliò di molto.
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