Come i nobili russi divennero dei ludopatici, pronti a perdere tutto alle carte

Storia
MARIA SEKIRSKAYA
Nei secoli di maggiore dipendenza dal gioco, ci furono principi e conti che arrivarono a giocarsi la moglie, e altri che usarono il tavolo verde come una sorta di duello senza sangue, per vendicare i torti

“La sera successiva Germann apparve ancora al tavolo. Tutti lo aspettavano. I generali e i consiglieri segreti lasciarono il loro whist per vedere una partita così straordinaria. I giovani ufficiali saltarono su dai divani; tutti i camerieri si riunirono in salotto. Tutti si fecero attorno a Germann. Gli altri giocatori non puntavano sulle loro carte, aspettando con impazienza di vedere come andava a finire. Germann stava in piedi al tavolo, preparandosi a puntare da solo contro il pallido ma sempre sorridente Chekalinskij. Entrambi aprirono un nuovo mazzo di carte. Chekalinskij mescolò. Germann prese una carta e puntò su di lei, coprendola con un pacco di biglietti di banca. Il tutto era simile a un duello. Un profondo silenzio regnava intorno.” Così, nel 1834, descriveva il gioco del whist Aleksandr Pushkin, nel suo “La dama di picche” (tradotto in italiano anche come “La donna di picche”; titolo originale russo “Pìkovaja Dama”). Allora quello era un passatempo molto popolare tra i nobili russi.

Il gioco d’azzardo in Russia era conosciuto e diffuso già nel XVII secolo. È persino citato nel “Sobornoe Ulozhenie”, un codice di leggi promulgato nel 1649 dallo Zemskij Sobor sotto Alessio di Russia. Allora si intendeva soprattutto lo “zern”, la versione arcaica del gioco dei dadi. Era popolare tra ladri e manigoldi di ogni fatta, e ai governatori si ordinava di punire coloro che vi giocavano. La pena prevista era il taglio delle dita dei giocatori.

Né al tempo di Alessio Mikhajlovich, né a quello di Pietro il Grande e della moglie Caterina I ci sono notizie di giochi di carte. In quell’epoca, tra la nobiltà erano più popolari la caccia, i balli, il biliardo e gli scacchi. Ivan il Terribile e Alessio Mikhailovich giocavano a scacchi. E anche Pietro il Grande, che costringeva i suoi collaboratori a fare partite con lui. L’imperatore non amava i giochi di carte e non li permetteva alle “assemblee” (i balli in società).

La passione per le carte

I giochi di carte si diffusero tra la nobiltà solo negli anni del regno di Anna I di Russia (sul trono dal 1730 al 1740). Il XVIII secolo fu un periodo di imitazione della cultura europea e i giochi di carte stranieri iniziarono improvvisamente a essere considerati un passatempo decente in società.

“Grazie al sistema della servitù della gleba e all’esenzione dal servizio militare obbligatorio, la nobiltà ebbe l’opportunità di realizzarsi creando una sottocultura del comfort e dell’intrattenimento, in cui il gioco delle carte era un’occupazione, un business”, ha detto lo storico Vjacheslav Shevtsov riguardo al fenomeno del gioco delle carte tra i nobili in una conferenza sul tema “Il gioco delle carte nella vita pubblica della Russia”. “Le carte da gioco non solo strutturavano il tempo, ma svolgevano anche una funzione sociale. I giochi accompagnavano la conversazione, permettevano di fare conoscenza; di “fare rete”; la posizione nella società era determinata dalla cerchia dei partner alle carte”.

I giochi di carte a quel tempo erano divisi in Russia in “kommercheskie”, ossia i giochi d’abilità, e “azartnye”, quelli d’azzardo. Il primo tipo era considerato dignitoso, mentre il secondo veniva condannato dalla società. Lo scopo dei giochi di carte d’azzardo, che si basavano solo sulla fortuna, era principalmente mirato a vincere denaro. Più alta è la posta, maggiore il rischio, il che significa più eccitazione dei giocatori. L’intensità emotiva attirava sempre di più il giocatore; molti diventavano dipendenti e potevano anche perdere tutto dall’oggi al domani. Il destino del giocatore dipendeva dal caso e dalla fortuna. I giochi d’azzardo allora popolari erano: lo “shtos”, il “bakkara” (baccarat) e il “faraon” (pharaon).

I giochi di carte “kommercheskie” erano l’opposto dei giochi d’azzardo. Le regole dei giochi d’azzardo sono semplici, mentre i giochi commerciali sono stati costruiti secondo regole complesse, quindi solo professionisti e giocatori esperti potevano mettersi alla prova. Era impossibile fare affidamento solo sul caso, sulla fortuna. Per questo motivo, molti assimilavano questi giochi a un gioco intellettuale come gli scacchi. I giochi commerciali allora popolari erano: il vist (“whist”), il “preferans” e il “vint” (che è un incrocio tra i due precedenti).

Nonostante la grande popolarità dei giochi di carte sia tra i nobili che tra i contadini, lo Stato cercava di vietare tali attività ricreative. I funzionari erano spaventati dal fatto che terre ed enormi somme di denaro andassero rapidamente perse. Questo era ormai un motivo frequente di rovina per i nobili. In uno dei decreti dell’imperatrice Elisabetta del 16 giugno 1761, si afferma che il gioco d’azzardo per denaro o con oggetti di valore come posta “non deve essere praticato da nessuno e in nessun luogo (ad eccezione degli appartamenti nei palazzi di Sua Maestà Imperiale) sotto nessuna forma e con nessun pretesto”. Si poteva giocare a carte “non per vincere, solo per passare il tempo” e “per somme di denaro trascurabili”. La pena per i trasgressori era una multa pari al doppio del loro stipendio annuale.

L’azzardo nonostante i divieti

Tuttavia, né i decreti né i divieti spaventavano i nobili. Perché? Il gioco d’azzardo attirava sempre più giocatori tra le classi superiori a causa del suo meccanismo psicologico. La persona non sapeva se avrebbe vinto o perso. Quindi, immaginava non di giocare con un avversario suo pari, ma direttamente con il destino. Fortuna, felicità o fallimento: tutto questo attraeva invincibilmente un nobile russo del XVIII secolo. E la rigidità delle leggi che limitavano la sua vita faceva esplodere questa necessità di evasione.

Lo storico della letteratura, strutturalista e semiotico russo Jurij Lotman (1922-1993) nel suo “Byt i traditsii russkogo dvorjanstva (XVIII-nachalo XIX veka)”, ossia “Vita e tradizioni della nobiltà russa (XVIII-inizio del XIX secolo)”, scrive di questo fenomeno: “La rigida regolamentazione, che plasmava ogni aspetto della vita privata di una persona ai tempi dell’Impero, creava un bisogno psicologico di esplosioni di imprevedibilità. E se, da un lato, i tentativi di indovinare i segreti dell’imprevedibilità erano alimentati dal desiderio di ordinare il disordinato, dall’altro, l’atmosfera della città e della campagna, in cui si intrecciava lo ‘spirito della mancanza di libertà’ con il ‘severo sguardo giudicante’, avevano fatto nascere una gran sete di tutto ciò che è imprevedibile, sbagliato e casuale”.

La speranza di vincere e l’entusiasmo scatenavano l’immaginazione dei giocatori. A circondare il procedimento del gioco era un’aura di mistero e superstizione. Ad esempio, nel libro “Tajny kartochnoj igry”, “ossia I segreti del gioco delle carte” (1909) c’è una tabella di corrispondenza tra i giorni fortunati al gioco e il compleanno del giocatore.

Il XIX secolo è stato il periodo di massimo splendore dei giochi di carte. Divennero un intrattenimento non solo per gli adulti, ma anche per i giovani. Alla vecchia generazione la cosa non piaceva e i più anziani cercavano di mettere in guardia i giovani sulle conseguenze negative del gioco di carte.

Ad esempio, nel libro di Jurjev e Vladimirskij del 1889, “Pravila svetskoj zhizni i etiketa. Khoroshij ton”, ossia “Regole di vita sociale ed etichetta. Buona forma” “il gioco viene definito “la vergogna dei salotti, la corruzione dei costumi e un freno all’istruzione”. Tuttavia, pur esprimendo disprezzo per il gioco d’azzardo, gli autori giungono comunque a dare consigli ai giovani sull’etica del gioco delle carte: quando puoi sederti al tavolo, con chi puoi parlare durante la partita e con chi no. Come spiegavano gli autori, “la conoscenza dei giochi di carte può spesso fornire un’opportunità per uscire dall’imbarazzo; quando devi, per esempio, prendere il posto di un giocatore che si assenta dal tavolo”.

Le preoccupazioni non erano vane. La disattenzione e l’eccitazione dei giocatori spesso portarono a tragedie e vergogne. Una di queste brutte storie avvenne a Mosca nel 1802. I protagonisti erano tre: il conte Lev Razumovskij, il principe Aleksandr Golitsyn e la sua giovane moglie Marija Golitsyna. Il conte era innamorato della principessa e Golitsyn lo sapeva. Fortunatamente per Razumovskij, il principe era ossessionato dalle carte. Una volta si sono incontrati a un tavolo da gioco, e la posta più alta fu… Marija Golitsyna. Il principe non era preoccupato di perdere la moglie, “che, come sapeva, ricambiava i sentimenti di Razumovskij”, osserva lo storico Georgij Parchevskij nel suo libro “Byloj Peterburg. Panorama stolichnoj zhizni”, ossia “La San Pietroburgo dei tempi che furono. Panorama della vita della capitale”, era semmai più preoccupato del perdere la partita in sé. Il conte Razumovskij in effetti vinse Marija Golitsyna a carte.

Agli innamorati andò bene: la Chiesa permise il divorzio. Tuttavia, il risultato delle circostanze di questo evento, e il fatto che fosse legato a una partita alle carte, divenne noto a tutta la città, e Marija fu ostracizzata. L’imperatore Alessandro I l’aiutò a uscire dalla difficile situazione: nel 1818 i Razumovskij erano a un ballo a Mosca, dove era presente anche l’intera famiglia imperiale. Marija Razumovskaja era seduta all’estremità del tavolo dello zar. Quando iniziò la cena, il sovrano si rivolse a lei con una domanda, chiamandola contessa. Indubbiamente, questo fece felice la Razumovskaja: il suo secondo matrimonio e il suo status erano stati riconosciuti dallo stesso zar.

Per la ricchezza e per l’onore

La perdita dell’onore, la perdita di un’enorme quantità di denaro e persino di un’intera fortuna non erano abbastanza come deterrente. Sempre più nuovi giocatori si sedevano al tavolo verde, desiderosi di arricchirsi e di sfidare la sorte.

Il gioco di carte non era solo intrattenimento, ma anche una fonte di guadagno per i nobili. Il più baciato dalla fortuna fu Fjodor Ivanovich Tolstoj (1782-1846), parente alla lontana del grande Lev, detto “Amerikanets”, “l’Americano”, per la sua passione per i viaggi nel Nuovo Mondo; duellante di professione e giocatore d’azzardo. Nella sua giovinezza perse molto, ma poi si dette alcune regole del gioco, che lo aiutarono a rifarsi. Ecco una delle sue regole: “Avendo vinto una somma doppia rispetto alle attese, mettila da parte e gioca con quanto avevi prima, finché hai voglia e soldi”. Presto iniziò a vincere e riferì sulle vittorie nel suo diario: “Ho vinto 100 rubli da Odahovskij e a kvit con tutti in Crimea”; “Ho vinto altri 600 rubli netti e mi devono 500 rubli”.

Con una partita a carte, i nobili potevano difendere il loro onore, come in un duello. Sebbene senza spargimento di sangue, anche una partita poteva essere crudele fino alla vergogna e poteva far perdere l’onore al rivale davanti al pubblico: “Il gioco è come un’arma, la partita a carte e il suo risultato sono un atto di vendetta”, ha scritto Georgij Parchevskij.

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A partire dal XVII secolo, il gioco di carte si è impossessato delle menti dei nobili russi per diversi secoli. È penetrata nella letteratura russa, nel folklore, nel tempo libero dei nobili. Molti personaggi storici famosi, scrittori e poeti russi giocavano a carte.

La terminologia dei giochi di carte è stata ampiamente utilizzata nella letteratura del XIX secolo, ad esempio nel già citato “La donna di picche” di Aleksandr Pushkin. Il poeta stesso amava giocare a carte, il che è stato ripetutamente confermato dai suoi amici e dalle note nei suoi taccuini. “Una volta Pushkin mi ha giustamente detto che la passione per il gioco è la più forte delle passioni”, scrisse un caro amico di Pushkin, Aleksej Wolf, nel suo diario.


Quel curioso mazzo di carte ispirato ai Romanov vestiti a festa per un grande ballo in maschera