Era il novembre del 1990. All’Unione Sovietica rimaneva poco più di un anno di (travagliata) vita, quando il Napoli arrivò a Mosca per gli ottavi di finale di Coppa dei Campioni, ospite dello Spartak, dopo lo 0-0 al San Paolo.
Il più atteso era ovviamente il campione argentino, Diego Armando Maradona, che aveva regalato nel campionato precedente il secondo scudetto al Napoli (che a settembre aveva umiliato la Juventus di Roberto Baggio nella Supercoppa italiana con un sonoro 5-1), e pochi mesi prima aveva perso la finale del Mondiale italiano contro la Germania, dopo aver fatto alzare la coppa alla sua nazionale nel 1986.
Ma dall’aereo che portò il Napoli, Diego non scese. I cronisti sovietici appresero poco dopo che il campione aveva trascorso una delle sue celebri notti brave ed era arrivato tardi all’aeroporto, perdendo il volo. La reazione fu un mix di sollievo, per le sorti dello Spartak, che vedeva mancare inaspettatamente l’avversario più pericoloso, e di dispiacere per non poter incontrare di persona il mito.
Ma dopo poche ore si diffuse un’altra voce. Diego Armando Maradona stava volando in Unione Sovietica, a bordo di un aereo privato da dieci posti. E così fu.
Quando si seppe che avrebbe pernottato, con la moglie Claudia Villafañe, all’Hotel “Berlin” (oggi è il Savoy) fuori si accalcò una folla di curiosi. I cronisti invece erano pochi e il fotoreporter uno solo: Aleksandr Jakovlev della Tass. Fu lui che immortalò un Diego davvero insolito: con indosso una lunga folta pelliccia. E così abbigliato il pibe de oro decise di farsi un giro per Mosca.
Nella capitale sovietica il suo aereo era atterrato alle 23, a 18 ore dal fischio d’inizio del match (la partita era in programma alle 17). A mezzanotte e 40 si registrò in albergo e chiese che gli portassero qualcosa per cena. Ma non fu possibile, perché la cucina era chiusa da tempo.
Maradona ci rimase molto male, e per consolarlo, gli proposero di fare una gita esclusiva per le vie deserte della Mosca di notte a bordo di un’auto della milizia (la polizia all’epoca si chiamava così). Alle 2 e 10 di notte uscì, attorniato dagli ammiratori e dai poliziotti sorridenti e salì sulla loro auto.
Diego Armando Maradona in pelliccia nella hall dell’Hotel Berlin di Mosca, con la moglie Claudia Villafañe
Aleksandr Jakovlev/TASSIl giorno dopo era una data allora sacra, il 7 novembre, anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, e sulla Piazza Rossa si sarebbe tenuta come al solito una grandiosa parata, che sarebbe stata anche l’ultima della storia sovietica. I poliziotti, con uno strappo ai protocolli senza precedenti, riuscirono a fargli fare anche un giro in macchina sulla piazza chiusa.
La sera di quel 7 novembre allo Stadio Lenin (oggi è il Luzhnikì) era invece in programma la partita tra lo Spartak e il Napoli. L’allenatore degli azzurri, Albertino Bigon, era in una posizione non facile. Utilizzare il fuoriclasse o punirlo per aver violato le regole di condotta? Anche nello Spartak c’era confusione. Maradona avrebbe giocato o no dopo quanto era successo? Quando arrivarono le formazioni, ci fu grande sbigottimento. Entrò nello spogliatoio Valentin Pokrovskij, che si occupava del protocollo, e decifrando la lista dei cognomi disse: “Ragazzi! Attenzione! Silenzio! Al numero dieci c’è un certo Zola, niente Maradona!”. All’epoca i numeri non erano ancora personali (lo sarebbero diventati con la stagione 1995-96). “Ma nascondono qualcosa! Al numero 11 c’è scritto ‘incognito’!”. Questo lasciò tutti a bocca aperta. In realtà al numero 11 c’era scritto “Incocciati”, cognome dell’attaccante partenopeo Giuseppe Incocciati.
Maradona, per punizione, e visto che non si era potuto allenare con la squadra, sarebbe in realtà poi partito dalla panchina. Entrò al 65esimo minuto, sostituendo proprio Zola, e gelando ancor di più i centomila tifosi accorsi allo stadio Lenin, sotto il fitto nevischio novembrino che si era scatenato nel secondo tempo.
Dette il suo contributo, anche con un paio di buone punizioni, ma senza trovare il gol. Al triplice fischio finale, la partita era ancora inchiodata sullo 0-0. E così fu dopo i supplementari. Si andò ai rigori. Diego il suo non lo sbagliò. Preciso, come sempre, di sinistro, accanto al palo. Il suo compagno di squadra Marco Baroni invece sì, calciando fuori e condannando il Napoli (i sovietici realizzarono tutti e cinque i tiri dal dischetto).
Il fotografo della Tass che lo aveva immortalato all’hotel “Berlin”, ha raccontato che più ancora delle storiche foto con Maradona in pelliccia ne ha cara una che scattò quella sera, sul campo: un preciso tackle del difensore dello Spartak Boris Pozdnjakov che fermò il fuoriclasse del Napoli in un’azione molto pericolosa.
Boris Pozdnjakov ferma in tackle Maradona in Spartak Mosca-Napoli
Aleksandr Jakovlev/TASSQuella sera di novembre, tra interviste dei giornalisti sovietici e regali degli avversari dello Spartak, che si presentarono tutti in coda negli spogliatoi per stringergli la mano e donargli qualcosa, finiva l’esperienza di Maradona in Coppa Campioni.
Diego Maradona dopo la sconfitta del suo Napoli contro lo Spartak per 5-3 ai rigori il 7 novembre 1990
Vladimir Rodionov/SputnikUna competizione che non avrebbe più disputato e che non avrebbe mai vinto. Poco dopo, nel marzo 1991, con la positività alla cocaina e la “fuga” da Napoli, sarebbe finita anche la sua esperienza italiana. È morto in un altro novembre, trent’anni dopo quella folle trasferta di Mosca. Rimane la sua storia e la sua leggenda. Quella del calciatore più forte di tutti i tempi; un calciatore in pelliccia sulla Piazza Rossa deserta.
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