“Non sono un eroe”, ripeteva Stanislav Petrov (9 settembre 1939 – 19 maggio 2017), con un pizzico di irritazione, nella maggior parte delle interviste. Era un tenente colonnello sovietico su cui era stato girato un film nel 2014, il danese “The Man Who Saved the World” (“L’uomo che salvò il mondo”).
“Sono stato solo al posto giusto nel momento giusto”, diceva lui. Sosteneva che gli stranieri avessero esagerato il suo eroismo e sembrava stanco dell’attenzione pubblica (quest’anno in Italia è uscito anche un libro del giornalista e conduttore tv Roberto Giacobbo “L’uomo che fermò l’apocalisse”).
Ma era difficile per i media non etichettare Petrov come eroe. Il 26 settembre 1983 il destino del pianeta era nelle sue mani: fu l’ufficiale con sulle spalle una decisione difficilissima: scatenare la guerra nucleare oppure no. Fortunatamente, scelse di evitarla. Se avesse scelto diversamente, oggi probabilmente non saremmo qui.
Sull’orlo della guerra
“Al comando scattò l’allarme: sulla console del mio posto di controllo iniziarono a lampeggiare luci rosse”, ha ricordato Petrov nelle sue interviste. Il fatto accadde nella base militare superprotetta di Serpukhov-15, dove aveva sede il centro di comando del sistema di allarme nucleare Oko, il grande occhio sovietico in grado di monitorare eventuali attacchi nucleari Usa per dare subito il via al contrattacco, secondo la dottrina della “distruzione mutua assicurata”.
Petrov era al suo turno quando il sistema informò i funzionari del lancio di un missile Usa, seguito poco dopo da altri cinque. Se Washington avesse premuto veramente il pulsante, avrebbe significato l’inizio della guerra atomica.
A quel tempo i rapporti tra le due superpotenze erano pessimi. Solo tre settimane prima l’Urss aveva accidentalmente colpito un Boeing sudcoreano sopra l’isola di Sachalin, uccidendo 62 americani. Il presidente Usa Ronald Reagan aveva parlato di “Impero del male”. Con due potenze nucleari che si scambiano tali minacce, la guerra sembrava possibile.
La notte della sua vita
Petrov doveva capire in fretta: gli Stati Uniti avevano davvero lanciato razzi contro il territorio dell’Unione Sovietica? Il suo computer diceva così, e tutti i 30 livelli del sistema confermavano che l’attacco era partito. Aveva meno di 15 minuti decidere. Se avesse creduto al computer, avrebbe dovuto dire alle autorità sovietiche di scatenare una ritorsione atomica su vasta scala, eliminando circa la metà della popolazione statunitense e facendo iniziare la Terza guerra mondiale. Ma se l’attacco fosse stato reale e Petrov non avesse agito in tempo, centinaia di migliaia di suoi compatrioti sarebbero morti invano. E sarebbe ormai stato troppo tardi per reagire. Potete solo immaginare l’enorme tensione di quei momenti, mentre le lancette dell’orologio continuavano a correre.
Terza guerra mondiale? Rinviata
Prese una decisione. Quando il telefono di emergenza collegato con il governo squillò, Petrov disse: “Il nostro sistema sta dando informazioni errate.” Aveva ragione: era in atto un malfunzionamento, a causa di una particolare congiunzione astronomica tra la Terra, il Sole e l’orbita del sistema satellitare Oko, dopo l’equinozio d’autunno appena passato, che aveva dato luogo a riflessi solari su nubi ad alta quota, erratamente identificati come lanci di missili.
Ma gli Usa non avevano attaccato. Alla domanda su come avesse preso la decisione, Petrov rispose con calma che semplicemente non poteva credere che Washington attaccasse l’Urss con solo cinque missili: un numero troppo esiguo, mentre il first strike, il primo colpo nucleare sarebbe dovuto essere di massima entità.
Oltre a ciò, Petrov, che aveva scrupolosamente studiato il sistema informatico sovietico, ha dichiarato poi di essere stato scettico nei confronti dei computer usati. “Mi sono permesso di sfidare il sistema e di non credere alla macchina, perché sono un uomo, non un computer”, confidò a Gazeta.ru in un’intervista.
La vita dopo la grande decisione
L’ufficiale non fu né premiato né gravemente punito dopo l’incidente. I superiori non erano ansiosi di elogiarlo ufficialmente, in quanto significava ammettere gravissimi difetti nel sistema di allarme nucleare (cosa che il governo non era pronto a fare). Così i suoi capi espressero una moderata lode, ma gli fecero anche un richiamo per “non aver correttamente redatto il registro” durante l’incidente.
Il falso allarme è rimasto classificato fino agli inizi degli anni Novanta, quando il generale Jurij Votintsev, ex comandante dell’Unità di difesa missilistica dell’aviazione sovietica, pubblicò le sue memorie, citando l’incidente e il ruolo fondamentale di Petrov.
Anni di fama tardiva
Successivamente, Petrov, che si era ormai ritirato dalla vita militare, si ritrovò sotto i riflettori dei media, soprattutto in Occidente. Non era però del tutto soddisfatto di questo. Vivendo in un piccolo appartamento a Frjazino (Regione di Mosca), comunicava con i giornalisti con riluttanza e ha sempre sottolineato di “non essere un eroe”.
“Era solo un momento di lavoro”, ripeteva, anche dopo aver ricevuto il Premio Dresda nel 2013 e dopo l’uscita del docufilm danese a lui dedicato nel 2014 (un altro, polacco, dal titolo “The red button”, era uscito nel 2011) e dopo molte interviste (tra cui una al Corriere della Sera).
Petrov desiderava esser lasciato in pace e starsene da solo. E così è andata. Nel settembre del 2017, il giornale tedesco Waz ha riferito che l’ufficiale era morto nel maggio 2017. La sua scomparsa ha ricevuto copertura mediatica internazionale solo per caso e con grande ritardo. Carl Schumacher, un suo amico tedesco, lo aveva chiamato il 9 settembre per fargli gli auguri di buon compleanno, sentendosi rispondere che era morto. Aveva 77 anni.