Il mio vicino Josif Brodskij

La casa dove visse Brodskij (Foto: Marta Rebón / Ferran Mateo)

La casa dove visse Brodskij (Foto: Marta Rebón / Ferran Mateo)

Tra le enormi contraddizioni che caratterizzarono la Russia sovietica ve ne è una che salta davvero agli occhi: nonostante l’Urss occupasse un sesto della superficie terrestre, lo spazio abitativo a cui aveva diritto un individuo si limitava a 9 metri quadrati

La famiglia Brodskij, come la stragrande maggioranza dei cittadini sovietici, condivideva la propria intimità con altre famiglie in una kommunalka (appartamento comunitario), dove “tutti conoscevano a memoria la biancheria intima del vicino”. Le leggi che regolavano la condivisione degli spazi e la posizione delle abitazioni erano particolarmente arcane e imperscrutabili. La politica perseguita dalla gerarchia dei funzionari di allora era dare a tutti uno spazio abitativo minimo, come segnalava Brodskij nel suo saggio “Una stanza e mezzo”. Quando tutto il tuo mondo deve limitarsi a un’area di una sola cifra, conquistare un paio di centimetri è un’impresa epica alla pari di quella colossale compiuta dal cosmonauta Yuri Gagarin.

“E che gran differenza possono fare quei pochi metri quadrati”, esclamava Brodskij. “Al loro interno si può montare una libreria o, meglio ancora, una scrivania”. Tutte le sue cose, compresa la sua collezione di cartoline, sono custodite pazientemente nella casa-museo di Anna Achmatova, sua mentore, in attesa che a San Pietroburgo si consacri un posto speciale per onorarne la memoria. Ho trascorso le due ultime estati in un appartamento in via Fontanka. San Pietroburgo è considerata una delle città più letterarie del mondo. Ed è vero: il visitatore non fa che imbattersi in fantasmi e versi, miti e personaggi. Le targhe commemorative poste sulle entrate dei palazzi della città non fanno che ricordarcelo, ad esempio, con un “Qui visse...”. Una simile profusione di targhette dimostra che gli scrittori russi (per scelta o per obbligo) cambiavano di residenza con una frequenza sorprendente.

Nelle sere d'estate, sulle rive della Neva, il sole tramonta così di sbieco che si ha come l'impressione che tutta la luce viaggi parallela all'orizzonte. Trasforma la superficie dei canali in un prolungamento dorato delle cupole delle chiese ortodosse e rende incandescenti le facciate dei palazzi. Un giorno, immersa nell'attività più raccomandabile in questa città, ovvero quella di perdersi per i suoi vicoli, presi la strada che corre lungo l’argine del fiume Fontanka fino al primo ponte, dopodiché svoltai a destra, imboccando viale Liteiny, una delle tante vie di stampo monumentale che compongono questa “città premeditata”.

Prima di arrivare a una cattedrale, circondata da cannoni, bottino di guerra contro la Turchia, vidi con la coda dell'occhio un volto familiare ritratto su un cartello appeso al balcone di un edificio in stile moresco. Riconobbi anche la facciata del palazzo, comparsa nel film “Una stanza e mezzo” del regista Andrej Khrzhanovskij, e feci uno più uno: era il balcone descritto da Brodskij, “da cui si scorgeva la strada in tutta la sua lunghezza e prospettiva impeccabile, tipicamente pietroburghese, dominata dalla sagoma della cupola della Chiesa di San Panteleimone, o, se si guardava verso destra, dalla grande piazza in cui stava acquattata in centro la cattedrale del Salvatore del Battaglione Trasfigurazione di Sua Maestà Imperiale”. Proprio lungo questa strada, continua Brodskij, Pushkin passeggiava tutte le mattine, in camicia da notte e pantofole, fino al Giardino d'Estate.

Chiamai il numero di telefono riportato sul cartello che annunciava la prossima apertura di un museo dedicato al poeta e dopo pochi giorni mi ritrovai, con mia grande sorpresa, all'interno della famosa stanza e mezzo. Quasi vuota, si è conservata praticamente intatta. Camminai sull’antico pavimento in legno – la madre di Brodskij “non faceva che lamentarsi perché gli uomini della famiglia camminavano su e giù per casa in calzini” - sotto il soffitto di oltre quattro metri “ornato con la stessa decorazione in gesso moresco che, assieme alle crepe e alle macchie prodotte dai tubi che di tanto in tanto esplodevano nell’appartamento del piano di sopra, lo avevano trasformato nella mappa dettagliata di una superpotenza o di un arcipelago inesistenti”.

Un ente civico sta cercando di trasformare l'intero piano nella “Casa della Poesia”, giacché oltre a Brodskij, qui, vissero anche Zinaida Gippius e Dmitrij Merezhkovskij, il cui circolo letterario fu uno dei più attivi della città. Per creare il tanto anelato centro culturale, finanziato con soldi provenienti da donazioni, sono state acquistate tutte le stanze del vecchio appartamento comunitario. Tutte tranne una. Un’anziana signora si rifiuta infatti di lasciare quella che è stata per così tanto tempo la sua casa. L'unica cosa in grado di farla desistere, nella sua caparbia volontà di finire lì i suoi giorni, sarebbe un fascio improponibile di banconote. Il progetto è in fase di stallo e il comune non può rilasciare un documento per far sì che la proprietà venga destinata a un nuovo uso. Entrai nel corridoio buio in punta di piedi, per non disturbare l’esigente vecchietta, accompagnata da dei ragazzi che si erano offerti di farmi da guida. Erano studenti di cinema e teatro, collaboratori attivi dell’ente civico. Estrassero una chiave enorme e aprirono la porta che conduceva allo spazio a cui Brodskij non poté più fare ritorno dopo l’esilio. Lì arrivavano solo le lettere con diversi francobolli stranieri.

In questo piccolo spazio egli trascorse l'infanzia e l'adolescenza. Nella sua mezza stanza, che era occupata anche dal laboratorio fotografico del padre, Brodskij costruì il suo mondo. Non c'è da stupirsi se, come tutti i suoi amici, egli si lamentasse di non avere una stanza dove portare le ragazze. Era una delle condanne delle kommunalki: “Le nostre relazioni amorose si riducevano principalmente a passeggiate o a lunghe chiacchierate. I nostri genitori facevano l'amore mentre noi facevamo finta di dormire”. Viste le circostanze, è logico che Brodskij considerasse l'anno e mezzo trascorso a Norenskaja, un minuscolo villaggio composto solo da quindici case, come il miglior periodo della sua vita. Condannato per “parassitismo sociale”, questo fu il suo primo esilio a circa 560 chilometri dalla sua città natale, dove il poeta affittò una casetta di 13 metri quadrati tutta per sé. Sebbene non avesse né acqua, né gas, né tantomeno mobili, gli facevano compagnia una macchina da scrivere e i libri di W.H. Auden.

Una curiosità: la lampada che illuminava la sua attività silenziosa era alimentata con kerosene portato da San Pietroburgo. La cosa migliore era che poteva ricevere visite. “Per la nostra generazione si trattava di un lusso inimmaginabile”, commentò un amico che gli fece visita. Dopo l’appartamento comunitario, il carcere e il villaggio di Norenskaja, seguirono New York e Venezia, città, come San Pietroburgo, bagnate dal mare, “l'immagine del tempo”. All’interno della stanza e mezza di Brodskij sono rimasti ora solo un armadio, fiori secchi, sedie moderne e, appese alle pareti, foto di una vecchia mostra. In questa stanza e mezza sembra accumularsi il tempo, sfuggente, "come un bambino che vuole afferrare un pallone da basket ma gli scappa di mano”.

Quando Brodskij arrivò negli Stati Uniti, si rese conto di tutto ciò che aveva conquistato ma anche di tutto ciò che aveva perso, emigrando. Come Ulisse, eroe nomade, iniziò un viaggio interminabile, anche se, nel suo caso, senza punto di ritorno. Brodskij mise in bocca al celebre personaggio omerico le seguenti parole: “Le isole, se viaggi tanto a lungo,
 si somigliano tutte, mio Telemaco:
 si svia il cervello, contando le onde,
 lacrima l’occhio – l’orizzonte è un bruscolo -,
 la carne acquatica tura l’udito”.

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