Lo scrittore russo Vladimir Sorokin (Foto: Itar-Tass)
Dieci scrittori provenienti da nove Paesi sono rientrati nella short list del premio internazionale “Booker”. La letteratura russa è rappresentata da Vladimir Sorokin. Mi pare giusto, dato che Sorokin sarebbe l’unico, a parte Fazil Iskander, a meritarsi non solo il “Booker”, ma anche il premio Nobel. Ma questa è una mia opinione.
Molti non amano Sorokin, qualche volta lo odiano e spesso non lo capiscono, prendendo i suoi personaggi per il loro autore. Nei suoi libri c’è così tanto sangue e dolore che leggerli è faticoso e necessario. Sorokin, come Tarantino, ha elaborato una particolare “grammatica della violenza” che lo aiuta a raggiungere il pubblico, avvalendosi del suo subconscio.
“Scrivo sempre della metafisica russa”, ha ammesso una volta Sorokin e ovviamente aveva ragione. La metafisica è quel campo della conoscenza che ricerca ciò che va “al di là della fisica”, studia la realtà di sempre, fondamentale, immobile, ciò che è invisibile a un occhio non addestrato al dolore.
Nell’oscuro regno delle forme eterne il platonico e allenato Vladimir Sorokin va alla ricerca di un archetipo nazionale. Lo aiuta il suo senso civico, che lo pone sempre in contrasto con le autorità. Il che non sorprende. Nelle dinamiche letterarie della nostra generazione Sorokin ha lo stesso ruolo che fu di Solzhenitsyn per i “shestidesjatnikov” (letteralmente “i sessantini” ovvero una subcultura dell’intellighenzia sovietica composta da artisti nati tra il 1925 e il 1945 circa, ndr).
Ma se Solzhenitsyn ricostruiva il passato, a Sorokin è il futuro che interessa. Il primo cercava le radici della tragedia, il secondo le prevede. L’impulso è comunque identico: la verità. Per Solzhenitsyn “vivere senza menzogna” (la famosa affermazione “zhit ne po lzhi”, ndr) significava svelare ciò che il potere teneva nascosto; Sorokin invece vuole denudare ciò che la lingua non ci fa vedere. Qui i loro percorsi divergeranno sempre, poiché Solzhenitsyn parlava con il tempo, mentre Sorokin, il tempo, lo ascolta.
Sorokin ragiona a strati e compone per cicli. Avendo tastato con mano il nervo dell’epoca non lo lascia in pace finché quello non smetterà di lamentarsi. Se nei primi libri (tra cui i migliori sono “Il trentesimo amore di Marina” e “Norma”) studiava la semiotica del potere totalitario e i meccanismi linguistici delle repressioni, negli ultimi anni lo scrittore si è allontanato dai brillanti esperimenti concettuali a favore dell’utopia autocratica. Avendone fissato i parametri ne “Il giorno dell’oprichnik”, Sorokin ricama su ampie pagine un incubo nazionale dall’accento cinese. Come Swift o Orwell, ma forse più alla maniera dei fratelli Strugatskij, ride di ciò che è noto e si inventa il fantastico.
Comprimendo cinque secoli di storia Sorokin descrive la realtà calata nell’eternità. La vita, plasmata nell’unica forma a lei possibile, è destinata a durare senza fine. Se non altro fino al giorno fatale in cui finirà il petrolio. Di ciò che accadrà dopo parla il suo ultimo libro, “La tormenta”.
Prendendo come canovaccio il racconto lungo di Lev Tolstoj “Il padrone e il lavorante”, Sorokin ha sottoposto il proprio arsenale – le metafore verbalizzate – al procedimento di stilizzazione. Così il piccolo uomo della letteratura russa si è ulteriormente rimpicciolito; adesso ci sta in un piatto, si ubriaca da un ditale, ma impreca come fosse un grande.
I personaggi de “La tormenta”, avanzando giorno e notte nella tempesta di neve, trascorrono sulla strada una vita piena di pericolose avventure, di fantasie angoscianti, di avventure d’amore, di deliri narcotizzanti e pensieri sulla natura del bene, del male e del popolo. Il paesaggio tuttavia non cambia, perché, come nella metropolitana, non si vede niente. Per questo lo scopo del viaggio gradatamente sbiadisce e l’unica cosa importante diventa la strada, che è sempre più difficile da trovare. Nel mondo post-apocalittico di Sorokin tutti vanno, ma nessuno si muove.
Nel primo Sorokin questo ossimoro si incarnava nella coda (titolo di un suo romanzo, pubblicato in Italia da Guanda, ndr), nel Sorokin maturo compare la tormenta; eterna e indifferente, appare un ostacolo naturale, ma nel libro la sfida fisica diventa metafisica. La neve, non facendo trovare la strada, non permette né di raggiungere la meta prefissata né di tornare a casa.
In questo piccolo capolavoro Sorokin non profana già la grande letteratura, ma ne fa una summa. Il vetturino Verchushka è un’immagine collettiva del popolo che soffre ma è impotente. Il dottor Garin è il riassunto delle persone benevoli della tradizione liberale. Fedele al suo dovere da medico, porta un vaccino che preserva dalla mòria latinoamericana che trasforma le persone in zombie (la cocaina?).
In viaggio Garin affronta tutte le prove che si confanno a un intelligent: si concede a una passione fuggevole, fraternizza con un “muzhik”, lo prende a pugni in faccia, cerca l’espiazione e la trova nei tormenti infernali. Sotto l’influsso di un filtro psichedelico, Garin si ritrova in un inferno assolutamente realistico dove, come ci era stato promesso più volte, lo friggono nell’olio di semi. Non lo salvano dalla terribile agonia né la pubblica confessione, né la fervida preghiera, né le vuote minacce. Ma, una volta ritornato in sé, Garin rivive ancora l’entusiasmo religioso per la vita restituita e prende in scorta due dosi di filtro, un gesto che ricorda violentemente i romanzi di Dostoevskij.
Intanto la neve non si placa, il vetturino congela, il dottore non arriverà da nessuna parte. Lo spazio isolato dalla neve risulta davvero estraneo. Come tutte le ultime opere di Sorokin, “La tormenta” finisce alla maniera cinese, quando il nuovo padrone della vita entra nel finale su un cavallo di tre piani.
Per poter giudicare la fantasmagoria di Sorokin è indispensabile conoscere i classici russi, di cui egli è un virtuoso interprete. Già per questo è difficile tradurre Sorokin, anche se è possibile, e lo dimostra il successo dei suoi libri all’estero, soprattutto nei Paesi che hanno avuto l’esperienza di un passato totalitario come la Germania, l’Austria e il Giappone.
Negli Stati Uniti è più difficile capire Sorokin, ma la recente comparsa in inglese dei suoi romanzi, primo fra tutti “Il giorno dell’oprichnik”, apre al lettore americano il più pungente autore della letteratura russa contemporanea. Un “booker” non ci starebbe proprio male.
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