Unione Eurasiatica, come evitare i problemi degli europei

Ottenere il giusto equilibrio tra approfondimento dell'integrazione e ampliamento della zona di integrazione è importante per l'Unione doganale (Foto: Ufficio Stampa)

Ottenere il giusto equilibrio tra approfondimento dell'integrazione e ampliamento della zona di integrazione è importante per l'Unione doganale (Foto: Ufficio Stampa)

L’integrazione tra i Paesi dell’Unione doganale e, in seguito, tra i membri dell’Uee rappresenta un’impresa imponente, che modificherà sostanzialmente le regole del gioco per tutti gli Stati coinvolti

Astana ha ospitato un summit dell’Unione doganale. Dal momento che il progetto di integrazione sta prendendo forma in maniera estemporanea, ogni summit suscita grande interesse. E se i presidenti di Bielorussia, Kazakhstan e Russia raggiungessero finalmente una svolta cruciale?

Sino ad oggi ogni conquista ha richiesto impegno, com'è comprensibile. L'integrazione eurasiatica all’interno dell’Unione doganale e, in seguito, dell’Unione Economica Eurasiatica (Uee), rappresenta un’impresa imponente, che a differenza dei precedenti tentativi di raggiungere l’integrazione – che si riducevano a slogan idealistici e dichiarazioni di fratellanza – modificherà sostanzialmente le regole del gioco per tutti i Paesi coinvolti.

Per molti aspetti, il progetto appare vago e sbilanciato. A determinare l’economia sono le politiche alla base dell’Unione, e questo significa che la volontà dei leader dei Paesi membri viene posta sempre prima di tutto il resto. Ecco perché i nodi fondamentali devono essere risolti in maniera estemporanea. La superstruttura istituzionale sovranazionale – la Commissione Economica Eurasiatica (Cee) – sta progredendo più rapidamente delle burocrazie dei singoli Paesi, i cui sistemi politici non hanno tempo di adattarsi alla nuova realtà. Inoltre, mentre la Cee si considera la guida del processo di integrazione, i capitali non sono ancora disposti a riconoscerle tale ruolo.

Non si tratta certo di problemi atipici: nel loro cammino verso l’Unione Europea, anche i Paesi del Vecchio Continente si imbatterono in difficoltà analoghe e affrontarono accesi dibattiti tra chi riteneva che l’integrazione avesse davvero il sostegno del popolo e altri che la consideravano un sogno intessuto dai politici, timorosi di non sopravvivere ai futuri cambiamenti di governo.

L’integrazione europea non è mai stata democratica; anzi: è stata, sin dall’inizio, un progetto delle élite. Se a cinque anni dalla conclusione della peggiore guerra della storia si fosse infatti chiesto ai francesi, che sono tra i fondatori dell’Unione Europea, se desiderassero cooperare da vicino con i tedeschi, la risposta sarebbe stata evidente. Occorre però notare che per tutta la storia dell’Ue (e sino a tempi recenti), le élite sono riuscite a fornire al pubblico delle chiare indicazioni circa i motivi che rendevano l’integrazione necessaria e i vantaggi che ne sarebbero derivati. Di norma, tuttavia, quella l’abbinata tra progetti di integrazione e progetti di democrazia non è vincente.

Progettare il futuro è addirittura più difficile. A quanto si sa, in Eurasia l’improvvisazione e il “brancolare nel buio” sono persino più diffusi che nel Vecchio Continente. Per non parlare di una sorta di competitività con l’Ue, dove l’integrazione ha raggiunto uno stadio più avanzato.

Sarebbe difficile spiegare, senza tener conto di questa competitività, le affermazioni rese ai più alti livelli circa la necessità di raggiungere un’unione monetaria (Dmitri Medvedev in particolare amava parlarne, quando era Presidente), a dispetto del fatto che l’introduzione di una valuta comune rappresenta la fase più estrema e remota dell’integrazione economica. E che, oltretutto, non è certo obbligatoria. Alla luce dei recenti sviluppi all’interno della Ue, verrebbe da domandarsi se compiere un simile passo abbia senso.

Ben più importante, naturalmente, è raggiungere un giusto equilibrio tra approfondimento dell’integrazione ed espansione della zona di integrazione. Un dilemma che i nostri colleghi europei dovettero affrontare quindici anni dopo la nascita della Comunità economica europea e a più di venti anni dalla sua iniziale proposta. Quando lo scafo era già stato costruito e temprato da diverse tempeste, e la nave procedeva ormai serenamente.

I Paesi dello spazio post-sovietico, invece, si stanno riavvicinando dopo un breve periodo di indipendenza, e l’idea di espansione è quindi sorta quasi subito dopo la formazione dei nuclei.

È opportuno ammettere nuovi membri prima che i Paesi fondatori abbiano stabilito il modello definitivo della loro cooperazione? La risposta non è chiara. Tra i possibili nuovi membri figurano il Kirghizistan, il Tagikistan (entrambi membri dell’Eurasec, alla base dell’Unione doganale) e l’Ucraina. I primi due presentano complicazioni sia da un punto di vista economico che legale: le loro economie sono instabili, e ad entrambi l’ammissione nel Wto, Organizzazione Mondiale del Commercio, ha imposto termini assai stringenti. Nel caso dell’Ucraina, invece, è tutta una questione di politica.

I motivi per opporsi all’ingresso di Kiev sono numerosi. L’Ucraina rappresenta un mercato vasto, dalle potenzialità economiche enormi, ed è un Paese di transito per le forniture energetiche. E benché l’industria nazionale sia arretrata, alcuni settori rimangono interessanti e potrebbero supplementare le catene di produzione. Da un punto di vista geopolitico, inoltre, l’Ucraina è una testa di ponte e, benché non sia centrale all’Unione Eurasiatica, è chiaro che la Russia le attribuisce un grande peso. Tutte queste considerazioni spingono Mosca a tentare di portare l’Ucraina nell’Unione, tramite concessioni, promesse e pressioni.

Tuttavia, se si mette da parte la diffusa opinione secondo cui Russia e Ucraina sono unite da radici culturali e storiche comuni, la situazione appare diversa. Timofei Bordachyov, esperto russo di rapporti internazionali, ha recentemente affermato che l’ingresso dell’Ucraina nell’Unione avrebbe senso se la Russia intendesse costruire un nuovo impero. In tal caso, l’Ucraina sarebbe essenziale. È evidente però che la fase imperiale della storia russa appartiene ormai al passato, e Bordachyov crede che i reiterati tentativi di includere l’Ucraina in una moderna associazione volta all’integrazione potrebbero rivelarsi controproducenti.

Se l’Ucraina si unisse all’Unione doganale potrebbe rallentarne, o addirittura arrestarne completamente, il processo. Per cominciare, l’opinione pubblica ucraina è divisa, e se non vuole rischiare di essere accusato di tradire gli interessi nazionali il governo dovrebbe negoziare tenacemente su ogni punto (accade in tutti i Paesi, ma l’Ucraina rappresenta un caso particolarmente estremo). In secondo luogo, l’Ucraina ha sposato da tempo una linea politica basata sul continuo destreggiarsi tra i suoi grandi vicini, al fine di assicurarsi i maggiori vantaggi possibili. E se ciò può essere considerato del tutto normale, non lo è per un Paese che appartiene a un’unione vincolante che opera sulla base del consenso.

Ogni unione prevede al proprio interno elementi di pressione e di persuasione, ma questi però non dovrebbero mai avere il sopravvento. Per ogni Paese lo stimolo iniziale deve essere volontario. In caso contrario l’espansione diventerà un ostacolo a una più profonda integrazione, e a lungo andare l’adesione del Paese rimarrebbe in dubbio.

Un’unione economica non rappresenta l’unica forma possibile di cooperazione tra Ucraina e altri Paesi post-sovietici: il libero mercato offre numerose altre opzioni, la più radicale delle quali richiederebbe che la Russia trovi semplicemente dei partner con cui la collaborazione è più agevole, e più vantaggiosa, di quanto lo sarebbe con Kiev.

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