Collettivizzazione: così fu spazzato via il vecchio contadino russo

Gli anni Venti del Novecento sono stati un periodo molto difficile per la Russia. Dopo la devastante Guerra civile, che seguì la rivoluzione del 1917 (con l’intervento di diverse potenze straniere a sostegno dei Bianchi contro i bolscevichi), e a seguito della crisi agricola e delle fallimentari riforme economiche, lo Stato sovietico, da poco costituito, necessitava di passi significativi e radicali per garantire lo sviluppo. La collettivizzazione fu uno di questi

Gli anni Venti del Novecento sono stati un periodo molto difficile per la Russia. Dopo la devastante Guerra civile, che seguì la rivoluzione del 1917 (con l’intervento di diverse potenze straniere a sostegno dei Bianchi contro i bolscevichi), e a seguito della crisi agricola e delle fallimentari riforme economiche, lo Stato sovietico, da poco costituito, necessitava di passi significativi e radicali per garantire lo sviluppo. La collettivizzazione fu uno di questi

L'autore sconosciuto/МАММ/https://russiainphoto.ru
Un’intera classe sociale fu cancellata per ordine di Stalin: quella dei kulaki, i più ricchi tra chi lavorava la terra. Nasceva la fattoria collettiva, mito fondativo del socialismo sovietico
La collettivizzazione comportò la radicale riforma del settore agricolo dell’Unione Sovietica. A partire dal 1927, si mirò ad accorpare le singole aziende agricole contadine in grandi fattorie collettive, i cosiddetti “kolkhoz”. I lavoratori non avevano alcun salario, ma spettava loro una parte di ciò che il kolkhoz produceva, solo per i bisogni propri e delle loro famiglia, e niente di più
La leadership sovietica sperava che la collettivizzazione avrebbe fatto crescere significativamente l’offerta alimentare per la popolazione urbana. Questo era estremamente importante dal momento che contemporaneamente era stato avviato il processo di industrializzazione. Più lavoratori nelle fabbriche significava maggiore necessità di cibo nei centri industriali
La collettivizzazione divenne un processo su grande scala nel 1929, quando fu pubblicato l’articolo di Stalin “L’anno della grande svolta”. Stalin confermò i processi di collettivizzazione e industrializzazione come mezzo principale per modernizzare il Paese. Allo stesso tempo, dichiarò che era necessario liquidare la classe di contadini ricchi, noti come “kulakì” (alla lettera: “pugni” in russo)
I kolkhoz erano destinati a diventare una pietra miliare nell’ideologia socialista: comunità di lavoratori che operano uniti, in totale gioia e armonia, a beneficio dell’enorme Stato sovietico. Tuttavia, la realtà non era così allegra
La collettivizzazione fu profondamente traumatica per i contadini russi. La confisca forzata di carne e pane portò a frequenti ribellioni. Molti preferivano uccidere le loro bestie, piuttosto che consegnarle alle fattorie collettive. A volte il governo sovietico doveva impiegare l’esercito per sopprimere le rivolte
Le vecchie tradizioni del contadino russo furono distrutte. I contadini erano da sempre interessati ai frutti del loro lavoro, ma nei kolkhoz perdevano ogni spirito d’iniziativa. I primi anni della collettivizzazione furono catastrofici. Nel 1932-1933, il Paese venne colpito da una grande carestia che uccise circa 8 milioni di persone, dovuta in gran parte alla collettivizzazione
Fino agli anni Settanta, i contadini dei kolkhoz, i kolchoziani (in russo: kolkhòzniki), non avevano diritto di ottenere il passaporto interno. Senza di esso, non potevano trasferirsi in città ed erano ufficialmente legati a vita al loro kolkhoz
In ogni caso, la collettivizzazione non ebbe solo ombre. La maggior parte dei contadini che non la subirono si trasferirono nelle città e divennero i protagonisti del processo di industrializzazione
La collettivizzazione consentì allo Stato di assumere il pieno controllo del settore agricolo e della distribuzione di provviste. Questo fu di grande aiuto quando la Germania invase l’Urss ed ebbe inizio la Grande Guerra Patriottica, nel 1941

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