Gli emigrati russi tra le macerie di Gaza

Foto: Photoshot / Vostock Photo

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La diplomazia internazionale è al lavoro per cercare l'intesa su una nuova tregua tra israeliani e i palestinesi. Nel frattempo Rbth ha parlato con alcuni emigrati russi che da anni vivono nella zona, teatro dei conflitti, per capire come è cambiata la loro vita

Nella tarda serata del 10 agosto Hamas e Tel Aviv hanno concluso un nuovo accordo di 72 ore di tregua al fine di sedersi al tavolo delle trattative nell’ennesimo tentativo di fermare lo spargimento di sangue. I combattimenti nella regione però sono ripresi. RBTH ha intervistato gli abitanti di Israele e della Striscia di Gaza cercando di capire come la nuova guerra ha cambiato le loro vite e cosa succede fuori degli obiettivi delle telecamere.  

L’altra faccia della guerra

“Qui ho imparato il significato dell’espressione essere fieri del paese in cui si vive e non sarò mai più in grado di dire o provare l’opposto. È in corso una guerra: che ti spinge a soffrire, talvolta ti opprime, ti schiaccia, talvolta ti fa raddrizzare le spalle, arrabbiare, infierire, piangere, sopportare. È in corso una guerra che è impari per definizione”, racconta Julija Blechman, laureata alla facoltà di Amministrazione statale dell’Università di Mosca (MGU) e trasferitasi in Israele al termine degli studi.

La giovane donna racconta di come la gente da tutto il paese raccolga provviste e beni di prima necessità per i soldati che fanno la guardia al confine con Gaza e di come i civili si riuniscano in ospedale per visitare i feriti.

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“Al confine con Gaza i soldati ci stanno per delle settimane intere, nel caldo rovente e con provviste scarse, in costante attesa di quello che porterà il domani. Vengono a trovarli all’improvviso delle persone che portano loro alimenti. All’inizio mamme e papà col mangiare di casa e poi sconosciuti provenienti da tutto il paese. La gente porta cibo dai ristoranti, dolci, sigarette. Non c’è alcuna direttiva “dall’alto”. Semplicemente, ogni singolo uomo decide da sé che per lui è importante prestare soccorso e aiuto. A decine scrivono lettere di ringraziamento e di sostegno ai militari. A decine si recano negli ospedali per fare visita ai feriti, per donare sangue o consegnare leccornie”, racconta l’emigrata russa.

Secondo le sue parole, un paio di settimane fa a Gaza è morto un soldato solitario, la cui famiglia vive all’estero. I suoi amici hanno fatto sapere tramite Facebook che i genitori non sarebbero riusciti ad arrivare per il funerale del figlio e che probabilmente nessuno sarebbe potuto venire per dare l’addio al soldato che aveva donato la vita per il suo paese. Come risultato, il giorno dopo ai funerali del militare si sono presentate 30.000 persone che prima di allora non lo conoscevano neppure.

“Nella testa di un israeliano non esiste che non si apprezzi la vita altrui. Qui ogni male è vissuto come il proprio personale. Volete sapere perché? Perché così è uso da loro. Mentre nella mia testa in nessun modo riesce ad entrarci questo concetto: ma come si fa a vivere così? Come si fa, prima di sganciare una bomba sui nemici, mandare loro un messaggio avvisando che in un’ora il bersaglio verrà annientato e di evacuare pertanto la zona portando via i bambini dall’area dei bombardamenti. Come si fa a condurre una guerra e nel contempo introdurre, passando per i punti di controllo, 180 camion di aiuti umanitari ai palestinesi? Come può essere che Israele apra al confine un ospedale da campo per i bambini vittime di Gaza? Come?!”, racconta Blechman.

La vita continua

“La società è divisa in due parti: quelli che già da prima erano scontenti, che volevano andarsene e che ora parlano sempre più di partire; e quelli che amano Israele e vogliono restare nel paese persino in questi tempi così difficili. La percezione della guerra dipende da dove si vive. Ad esempio, chi abita al centro del paese, o al nord, non avverte molto sulle proprie spalle la tensione del conflitto. Certo, si sono levate alcune sirene, tutti sono andati a nascondersi nei rifugi, ma poi ognuno di nuovo è tornato ad occuparsi degli affari suoi”, ha riferito a RBTH il direttore marketing della compagnia Modlin, Sofija Samojlova, residente a Tel Aviv.

Come racconta lei stessa, gli israeliani nel sud del paese stanno vivendo gli eventi in maniera del tutto diversa: intere famiglie sono costrette a dormire nei rifugi, avendo solo 15 secondi per raccogliersi e correre ai ripari prima che le munizioni nemiche gli esplodano in testa.

“Sì, è ovvio che la guerra ha influito sulla nostra vita di tutti i giorni. Ancora una volta, a Tel Aviv tutto questo lo si avverte meno. Anche se, quando la sirena di allarme è risuonata per la prima volta, io mi trovavo in un centro commerciale e la gente nel panico ha cominciato ad agitarsi. Internet e i telefoni hanno smesso di funzionare, poi però, tutti si sono abituati. Il finesettimana però, la città ch’era solita essere un fiume in piena di gente, si è svuotata”, ha raccontato a RBTH Samojlova.

La ragazza racconta di come il sostegno si faccia sentire da tutte le parti. Così ad esempio, la settimana precedente al bar ha incontrato tre italiani che, stando alle sue parole, sono arrivati intenzionalmente in periodo di guerra per dimostrare ai propri connazionali che in Israele la vita continua e che la situazione non è così terribile come viene descritta dai media.  

Attraverso gli occhi dei palestinesi

“Circa il 60% della popolazione della Striscia di Gaza è composta da bambini e adolescenti, per questo la guerra coinvolge prima loro di noi. Ci sono molti feriti fra i bambini, i genitori non possono lasciare tranquillamente i loro figli per strada perché costantemente, sulle loro teste, volano gli aeroplani spia israeliani. È spaventoso...”, ha detto Ljudmila Al’-Farra, medico in uno degli ospedali del Settore di Gaza.

Come lei ha osservato, circa 250.000 persone hanno dovuto abbandonare le proprie case: le loro dimore sono state rase al suolo completamente o parzialmente. Secondo la sua testimonianza, i villaggi al confine con Israele sono stati abbattuti del tutto e la gente si raccoglie nei quartieri centrali del paese, cercando di aver salva la vita.

“Durante la prima fase dell’operazione militare di Israele, gli attacchi aerei sugli obiettivi terrestri effettuati con caccia F-16 e il rombo delle esplosioni si udivano per migliae miglia tutt’intorno: una sensazione come se letteralmente fosse iniziato un terremoto e la casa fosse sul punto di crollare. Nel corso dell’operazione di terra le schegge delle munizioni dell’artiglieria volavano fino a casa nostra. Siamo stati persino costretti a lasciare la nostra casa per tre giorni”, dice la signora Al’-Farra.

Come ha sottolineato lei stessa, mancano gli alloggi, il cibo, l’acqua potabile e i vestiti. “Continueremo a lavorare e a rimanere qui. Io sono medico e non posso semplicemente andarmene. Tanto più che si va verso la pace. Vedremo come andrà ttutto a finire”.

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