La vita in Urss tra fattorie collettive e membri del partito raccontata da un fotografo americano

Nathan Farb
Nel 1977 Nathan Farb ha realizzato un servizio fotografico a Novosibirsk, immortalando uomini e donne “strappati” per un attimo al lavoro di tutti i giorni

Sguardi seri e penetranti, strappati per un attimo al lavoro nei campi e nelle fattorie collettive. Sono i ritratti del fotografo statunitense Nathan Farb, che nel 1977 ha realizzato un progetto fotografico nella provincia russa: pochi sorrisi, immortalati su uno sfondo pulito, che costringono lo spettatore a fare i conti con la realtà sovietica dell’epoca.

È stato difficile per lei all’epoca entrare in Unione Sovietica?

Negli anni Sessanta mi trovavo in Romania. Ero finito lì grazie a uno scambio culturale tra Usa e Unione Sovietica. Era stata allestita una grande mostra di fotografia americana, e vennero esposti anche alcuni miei scatti. Da lì ebbi l’opportunità di andare a Novosibirsk. Ero interessato alla Russia “vera” , a quella autentica di provincia.

Cosa l’ha colpito più di tutto al suo arrivo a Novosibirsk?

Uscivo in strada e la gente iniziava a farmi domande. Ovviamente mi parlavano in russo. Inizialmente trovavo la cosa divertente... ma come potevano non accorgersi che ero straniero? Avevo al polso un orologio digitale americano nuovo di zecca! Poi, nello studio fotografico, ho iniziato a conoscere nuova gente. E mi sono reso conto che le persone non erano poi così diverse da noi americani.

Nelle sue foto si vedono persone vestite in modo molto elegante. Altre invece ricordano seppur vagamente lo stile degli hippies. Ha notato qualche somiglianza con l’Occidente?

Credo che gran parte della moda sfoggiata in quel periodo provenisse dall’Occidente. Ho conosciuto giovani donne che si cucivano i vestiti che vedevano nelle riviste.

E quelle persone che invece si facevano fotografare in abiti da lavoro? Era una scelta voluta, un tentativo di mostrare la propria fierezza nei confronti della classe operaia?

Semplicemente credo che i loro abiti di tutti i giorni fossero meno buoni delle divise da lavoro. Alcune persone sono state portate in studio direttamente dalle fattorie collettive. La donna che sorride, ad esempio, è arrivata direttamente da un kholkhoz, e dubito che a casa avesse abiti migliori di quelli.

Cosa ci racconta invece della foto dei membri del Partito?
Avevano sentito parlare di questa iniziativa fotografica. Conoscevo un paio di loro, visto che erano “responsabili” di noi americani. Erano le nostre “controparti”, questo era il termine che veniva utilizzato. Avevo stretto amicizia perché uno di loro aveva una figlia adolescente, proprio come me, e ci siamo ritrovati a parlare di figli. Quando ho sentito che stavano arrivano, ero molto contento. Ma il mio obiettivo era quello di farli entrare, scattargli una fotografia, e mandarli via: non volevo che si accorgessero che stavo “contrabbandando” dei negativi da portare a casa.

Qual era l’obiettivo di queste foto?
Volevo tornare in America con qualcosa che fosse il più vicino possibile alla realtà che avevo osservato con i miei occhi. Inoltre volevo realizzare un progetto fotografico che raccontasse le condizioni umane di queste persone. Alla fine, credo che non siamo così diversi.

Crede che queste foto assumano oggi una nuova importanza?
Questo non dipende da me. Lo spero. C’è un team tedesco di produttori cinematografici che vuole riportarmi a Novosibirsk nel dicembre prossimo per fare delle riprese: credo che iniziative come questa aiutino le persone a sentirsi più vicine, a capirsi nonostante le differenze, al di là della propaganda e della politica. Penso che all’epoca questo servizio fotografico avesse centrato in pieno l’obiettivo.

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