Abiti di canapa, scarpe di corteccia di betulla, fuoco da accendere con pietra focaia e acciarino. D’estate, tutt’attorno animali selvatici pericolosi, d’inverno gelo e neve fino alla cintura. Niente della moderna civiltà, e il villaggio più vicino a 250 chilometri di distanza.
Quarant’anni fa, volando in elicottero sulla taiga remota, dei geologi sovietici notarono un orto in luoghi totalmente disabitati nella parte alta del fiume Abakan. Si scoprì che nella foresta viveva una famiglia di vecchi credenti, i Lykov: il padre e quattro figli ormai adulti. Per molti anni erano rimasti tagliati fuori dal mondo, ma dopo un trafiletto su un giornale, la famiglia divenne nota in tutta l’Unione Sovietica.
Un paio di anni dopo, nel 1982, raggiunse gli eremiti un giornalista della Komsomolskaja Pravda, Vasilij Peskov. Si aspettava di vedere una famiglia di cinque persone, ma trovò solo il padre, Karp, e la figlia Agafia, e tre tombe da poco ricoperte di terra. A poca distanza l’uno dall’altro, di malattia, erano morti due fratelli e una sorella. Nel 1988 se ne andò anche l’anziano Karp, e solo Agafia rimase nella foresta, rifiutandosi di cambiare il suo modo di vivere.
Persone che erano all’oscuro di come fossero andate davvero le cose, iniziarono ad accusare proprio il giornalista Peskov della morte dei Lykov, per i rischi che rappresenta un contatto con il mondo esterno per persone abituate a vivere in isolamento. Il giornalista soffrì molto di questo, anche perché lui era intenzionato a difendere la famiglia dall’invasione di sfaccendati e curiosi. Per molti anni tornò in visita ai Lykov, aiutando e portando loro utensili da cucina, medicinali e persino una capra, affinché gli eremiti avessero sempre latte fresco.
In uno degli ultimi incontri con Agafia Lykova, l’ora scomparso Peskov le chiese se secondo lei fosse stato un bene che quei geologi avessero trovato la sua famiglia. Agafia ammise di pensare che quelle persone fossero state un vero dono di Dio. E che se non fosse per loro, sarebbero morti ben prima.
“Che vita facevamo: tutti logori, con i vestiti pieni di toppe. Fa paura ricordarlo, mangiavamo erba e cortecce”, raccontò Agafia alla Komsomolskaja Pravda.
Dopo gli incontri con i Lykov, Peskov scrisse una serie di reportage. E la storia degli eremiti conquistò moltissime persone: a ogni uscita si formava la coda ai chioschi dei giornali.
Peskov raccontò ai suoi amici di aver saputo che la moglie di Breznev aveva mandato una persona in edicola all’alba a comprarle la “Komsomolskaja Pravda”, perché non vedeva l’ora di leggere la continuazione della saga degli eremiti siberiani. Più tardi, i reportage di Peskov furono riuniti in un libro, “Taezhnyj tupik”, che è stato tradotto anche in italiano, con il titolo “Eremiti nella taiga”.
In tutta la Russia c’erano molte persone che fuggivano e si nascondevano per via delle credenze religiose (e ancora oggi, di tanto in tanto, i media scrivono di casi come questo). I vecchi credenti in Russia sono sempre stati perseguitati, e solo lo zar Nicola II mise fine alla loro oppressione. Ma dopo la rivoluzione, il governo sovietico la riprese con rinnovata forza, costringendoli a unirsi nei kolkhoz, le fattorie collettive, o imprigionandoli.
Rifiutando la collettivizzazione, la famiglia Lykov si spostò lontano nella foresta, fino sul territorio di una riserva boschiva. Negli anni Trenta, le autorità della riserva proibirono loro di cacciare e pescare.
Una volta arrivò una denuncia anonima che accusava i Vecchi Credenti di essere dei bracconieri. Le guardie della riserva andarono a controllare e, accidentalmente, spararono al fratello di Karp Lykov. Tuttavia, l’indagine si insabbiò e, anzi, si sostenne che i Vecchi credenti avessero opposto resistenza armata.
Nel 1937, l’anno più terribile del Grande terrore staliniano, arrivarono dai Lykov degli agenti dell’Nkvd, e cominciarono a interrogarli. I membri della famiglia si resero conto che era meglio tagliare la corda. Così si inoltrarono ulteriormente nella taiga, cambiando costantemente il luogo dove si fermavano, e cancellando le loro tracce.
Ora Agafia ha 74 anni e vive totalmente da sola da 30 anni nella foresta. L’unica volta in cui ha cercato di entrare in contatto con la civiltà è stato nel 1990. La donna andò ad abitare nella cappella di un monastero, professandosi fedele dei Bespopovcy (una delle due maggiori confessioni dei Vecchi Credenti, che rifiuta le gerarchie ecclesiastiche e molti riti liturgici, tra i quali l’eucarestia) e decise persino di farsi monaca. Tuttavia, l’opinione sulla fede di Agafia si rivelò poi diversa e tornò al suo insediamento. Nel 2011, i rappresentanti della chiesa ufficiale dei Vecchi Credenti hanno battezzato Agafia secondo le regole canoniche.
Le autorità locali sostengono Agafia, e governatore della regione di Kemerovo Aman Tuleev (che ha lasciato la carica il 1º aprile scorso, dopo oltre vent’anni al potere) ha ordinato che l’eremita abbia tutta l’assistenza necessaria. L’interesse per l’anziana cresce di anno in anno. Arrivano troupe cinematografiche, giornalisti, medici e volontari.
Nel 2015, una troupe cinematografica britannica, guidata dalla regista Rebecca Marshall, è arrivata da Agafia per girare un documentario sulla sua vita, “The Forest in Me”.
Agafia considera la solitudine la via principale per la salvezza dell’anima. Anche se lei non si considera sola. “Accanto a ogni cristiano c’è sempre un angelo custode, così come Cristo e gli apostoli”, ritiene.
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