Quando Ivan, che allora aveva otto anni, e la sua famiglia se ne sono andati dal villaggio, lui ha avuto per la prima volta qualche chance di trovare persone simili a lui, anche se ancora non sapeva cosa questo significasse precisamente. Tutta l’infanzia l’aveva vissuta con la sensazione che nel suo corpo qualcosa non fosse come doveva. Ancora peggio: con la piena coscienza che qualcosa non fosse come doveva.
La famiglia si trasferì a Chità, centro da 350 mila abitanti, vicino al confine con la Mongolia, 6.300 chilometri a est di Mosca. A 19 anni Ivan ha preso coscienza di essere gay. Gli piacevano i ragazzi, mentre le ragazze non lo attraevano, anche se andava pazzo per il loro “mondo femminile” di abitini, trucchi, per la loro fragilità e delicatezza. Ha iniziato a frequentare la locale scena Lgbt. E proprio a una delle feste Lgbt gli chiesero per la prima volta di che gender fosse. Lui rimase confuso, andò a casa e si attaccò a YouTube.
Poco dopo questo fatto, Ivan lasciò la casa dei genitori per andare a vivere da solo, e a 23 anni iniziò la cura ormonale per diventare donna. In questo periodo si contano anche un tentativo di suicidio e un ricovero in un ospedale psichiatrico. Ora ha 24 anni e, in famiglia, solo la sorella è a conoscenza della sua situazione. “Penso che i genitori immaginino, anche se non mi hanno mai fatto nessuna domanda sul tema”, dice Ivan, un ragazzo dal viso stretto e pallido, con i capelli tagliati corti, affinché sia più comodo mettersi la parrucca.
Il suo corpo ha già iniziato a cambiare. Quando va a trovare i genitori si mette vestiti ampi, che nascondono le forme. E spera che loro non lo scoprano mai: “Io li conosco”, dice. “Non mi vorranno più vedere. Ma io non voglio perderli. Meglio che tutto resti come adesso”. E racconta i suoi “piani di sparizione”: trasferirsi in un’altra città, operarsi, cambiare nome e iniziare una nuova vita. Perché per lui è meglio scomparire che parlarne apertamente ai genitori. Quello che gli serve per questo piano sono solo i soldi. E lui è convinto che nella storia della sua vita “non ci sia niente di nuovo”: lo stesso accade a tutti quelli che sono nati in qualche città provinciale della Russia e “hanno sempre saputo che il loro corpo li ha traditi, che non appartiene loro”.
La biologia e la solitudine
“Nel mio caso è stato diverso. Ma pure io ne ho passate tante. Il più difficile è come spiegare alla mamma e alle altre persone che ti stanno intorno che vivi in un corpo che non senti come tuo. In generale, come è possibile spiegare a qualcuno una cosa così?”, dice la ventiduenne Viktorija. Per i documenti lei è ancora un ragazzo (si rifiuta di dirci il nome) e anche a livello fisico lo è; non ha infatti ancora sostenuto l’intervento chirurgico di correzione del sesso. Ma ormai da quattro anni nel suo armadio non c’è più nessun capo di abbigliamento maschile, neanche jeans (“perché sono unisex”), ma solo vestitini e gonne.
Viktoria vive a Kaliningrad, città da 460 mila abitanti (un po’ più di Chità). E ritiene che abbia più fortuna chi vive a Mosca o a San Pietroburgo: nelle due metropoli quanto meno c’è una community transgender, con i suoi divertimenti. Ma Viktoria ha amici, ha mantenuto i rapporti con i familiari ed ha avuto una lunga relazione con un uomo. L’unica cosa nuova che ha sul suo corpo è un grosso seno. Sebbene sia cresciuto da solo, a un certo punto. E questa è la principale differenza tra Viktoria e molti altri transgender. E forse in questo, come lei stessa ritiene, ha “avuto fortuna”.
“A 14 anni ero già fermamente convinta di essere una bambina e che vivere diversamente non potevo, non volevo e che non lo avrei fatto. A livello fisico era chiaro che qualcosa non andava: mentre ai miei compagni di classe cominciava a formarsi la voce bassa e a farsi ben visibile il pomo d’Adamo, a me non succedeva niente”.
“Mio padre non ha mai vissuto con noi e io non l’ho mai frequentato. Ma la mamma ha cercato in tutti i modi di fare di me un vero maschietto. Mi ha iscritto a tutti i possibili sport considerati da uomini, tra cui il Taekwondo e la boxe. Mi portava spesso dal barbiere a tagliarmi i capelli corti. Fino a 16 anni mi comprava lei i vestiti, da ragazzo, ovviamente. Mi diceva sempre ‘avrai problemi a scuola’ e aveva ragione. Ma io a ogni occasione le dicevo ‘sì, ok, ma guardami!’”.
I medici le dissero che il suo corpo produceva più ormoni femminili che maschili e che quindi non avrebbe avuto neppure bisogno della cura ormonale. E per questo un bel giorno, dopo la fine dell’istituto, ha buttato via tutto il guardaroba da uomo e ha iniziato a vestirsi da donna.
“Sono entrata a far parte benissimo dell’universo femminile, perché non faccio la terapia ormonale e a livello psichico tutto va bene. Gli altri hanno spesso sbalzi d’umore pericolosi. Sono spesso potenziali suicidi, perché dovendo assumere medicinali a pacchi impazziscono”, dice. Ma i transgender impazziscono anche perché sono le persone più “invisibili” e il gruppo “con i diritti più ridotti in assoluto”.
“Sono una pecora nera. Non ho amici. Non ho relazioni”, confessa Ivan, “E nessuno ha idea di fare qualcosa per rendere la mia vita più semplice”.
La peste della prostituzione
La Russia segue le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della Sanità e fino a giugno 2018 l’Oms considerava il transgenderismo (ufficialmente: “transessualismo”) una malattia psichica, alla stregua della schizofrenia. Nella nuova redazione dell’International Classification of Diseases (ICD) il transgenderismo diventa solo una variazione dalla norma. Ma questo non elimina i circolo vizioso.
Cambiare sesso è possibile solo dietro parere positivo della commissione medica, della quale fanno parte uno psichiatra, un sessuologo e uno psicologo. Per arrivare alla commissione bisogna rimanere per un certo periodo in osservazione. E il processo dura dagli otto mesi ai due anni. Se la persona non afferma con la necessaria determinazione il suo essere transgender, di solito la commissione nega l’operazione. Ma senza correzione chirurgica non è possibile cambiare i dati sul passaporto: il sesso e il nome. Anche se ad alcuni transgender non servirebbe un intervento per sentirsi a loro agio con il nuovo sesso.
A causa di questa situazione, si verificano degli eccessi, quando per esempio mandano in un carcere maschile una ragazza transgender solo perché sul passaporto risulta che sia maschio. E i documenti con foto di donna ma nome e sesso maschili (o viceversa) creano sempre grossi problemi negli ospedali, alla frontiera, durante ogni viaggio e al momento dell’assunzione al lavoro. Quest’ultimo punto è il più doloroso.
“Ho cercato di farmi assumere come cameriera, donna delle pulizie e in discoteca. Tutto è andato in malora nel momento in cui ho portato i documenti necessari per il contratto. Dopo che hanno visto il passaporto è cambiato tutto. La cosa migliore che ti dicono è ‘‘Abbiamo già preso un altro’, oppure ‘Le faremo sapere. Chiamiamo noi’. Ma mi hanno anche detto ‘Lei è un uomo. Perché si fa del male da solo? Perché corrompe la società? Perché si combina a quel modo?’. Sono una visagista autodidatta, lavoravo a domicilio, ma ora sono disoccupata”, racconta Viktorija. Ritiene che non la prendano a lavorare perché temono di guastarsi la reputazione: “Molte persone non sono tolleranti e non amano trovarsi vicino persone come noi”.
Ivan lavora in un salone di bellezza e dice che questa sfera è praticamente l’unica non preclusa ai transgender. Ma nel settore pagano troppo poco per potersi permettere l’operazione di cambio del sesso. “Solo la vaginoplastica costa dal mezzo milione di rubli su” (6.900 euro). E, a quanto dice, per molti l’unica alternativa per trovare quei soldi è darsi alla prostituzione; “è come una peste”.
“Bisogna capire queste persone. Niente lavoro, niente soldi, niente famiglia. Non hanno nulla da perdere. Vivono sognando l’operazione e si danno da fare per mettere i soldi da parte. Solo non riescono a capire che dopo questo non saranno più necessari per nessuno, e, se lo saranno, lo saranno come oggetti”.
Un corpo estraneo
Quando Viktorija ha trovato il primo ragazzo, per un mese intero ha tenuto il segreto sulla sua sessualità. Lui non aveva alcun sospetto. “Dovevo dirglielo. Ancora non c’erano stati contatti di quel tipo. Ma io non sono operata”, racconta Viktorija. Raccontò tutto. Lui dette in escandescenze e gridò a lungo. Non contro di lei, nel vuoto. “Fu doloroso per lui. Era in un tale stato che mi spaventai pensando che potesse fare del male a se stesso”, ricorda. Se ne andò per lo choc. Ma poi tornò e rimasero insieme per un anno e mezzo.
Nel maggio di quest’anno sui media russi ha avuto grande risonanza questa storia: alla russa Julia Savinoskaja sono stati tolti due bambini adottati dopo un intervento di mastectomia (eliminazione del seno). Lei teneva un blog su come si preparava a fare la correzione chirurgica del sesso. A luglio su Facebook è iniziata la campagna #трансфобиянепройдет (#latransfobianonpasserà) dopo che una ragazza transgender non è stata fatta entrare in discoteca e chiamata “mostro”.
“La cosa più difficile è la vita in pubblico. Anche il bambino più piccolo ti può correre incontro e chiamarti ‘frocio’, senza che nessuno lo rimproveri”, dice Ivan. Viktorija è d’accordo. E dice che viviamo in una società dove tutti vogliono occuparsi dei fatti tuoi, infilarsi sotto la tua gonna e dentro la tua testa e farti la morale. “Sapete cosa provo di fronte a questo? Non capisco la logica. Ci sono violentatori, uomini che picchiano le donne, omicidi. Prendetevela con loro, invece che con noi. Ma le persone lo considerano una stupidaggine. Come se ci fossimo messi in testa da sole questa strana cosa e di conseguenza soffrissimo. E come spiegare loro che noi non possiamo vivere in un altro modo? Che non puoi vivere nel corpo con cui sei nata, se non è il tuo corpo! E non abbiamo scelta”.
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