Studiare in Urss negli anni del Disgelo: la lingua russa nei ricordi di Carlo Fredduzzi

Archivio personale
La vita universitaria nella Leningrado degli anni Sessanta e gli incontri con i grandi studiosi sovietici. Vi proponiamo il racconto in prima persona del direttore dell’Istituto di cultura e lingua russa di Roma, che ai suoi studenti ha sempre detto: “Studiare il russo non è solo imparare una lingua, ma anche scoprire un mondo ancora sconosciuto. E credetemi, ne vale la pena”

Ho avuto la fortuna di studiare filologia slava all’Università Statale di Leningrado dal 1962 al 1967. Il periodo era quello che andava inizialmente da Khruščëv e dal ’64 proseguiva con Brežnev. I miei professori si dividevano in tre categorie: gli anziani che spesso provenivano dalle rabfak (facoltà operaie, simili al nostro ’68 quando gli universitari imponevano gli esami di gruppo), gli insegnanti dell’età di mezzo che svolgevano diligentemente il loro compito, e i giovani docenti che cominciavano ad aprirsi al disgelo culturale così puntualmente descritto da Ilyà Ehrenburg quasi 10 anni prima. Uno di questi ultimi era Maksìm Pàvlovič, docente di polacco, innamorato della lirica che conosceva a memoria i testi di tutte le opere e che rendevo felice ogni primo settembre al rientro dall’Italia con i dischi della Callas e dei maggiori tenori e soprani del mondo degli anni ’60.

Tuttavia nell’ateneo intitolato al fustigatore della cultura occidentale, Andrej Ždanov, insegnavano anche grandi menti che in Occidente erano conosciute solo dagli specialisti. Prima di recarmi in Russia leggevo sulla stampa italiana tutto ciò che scrivevano gli scrittori sovietici (da Fadeev a Sciolochov, passando per Aksionov e Evtušenko) e tutto quello che si scriveva sull’Unione Sovietica. In una recensione critica su L’Espresso seppi che Vladimir Propp aveva avanzato già dal 1928 una definizione rivoluzionaria del genere fiabesco partendo dal concetto di “funzione narrativa”, concependo la fiaba stessa come rappresentazione di antichi rapporti di produzione e di manifestazioni magico-religiose. A Leningrado avevo saputo che il professor Propp insegnava proprio allo “Ždanov”, ma non l’avevo mai visto né letto in facoltà. Un giorno fuori dall’Aula Magna vidi uno sciamare di giovani che di corsa prendevano posto. D’istinto cercai affannosamente un posto nelle prime file accanto ad una bellissima ragazza dai capelli nerissimi e dagli occhi a mandorla. Poco dopo entrò in aula un signore anziano, baffi e pizzetto canuti, che indossava un abito liso fino all’invisibilità ma pulito come una colomba. Chiesi alla ragazza chi fosse. Mi guardò come un marziano ed esclamò: “Ma da dove vieni, dalla Luna?”. “No – risposi piccato -, dall’Italia. Anzi da Roma, dove alla fine arrivano tutte le strade, compresa quella dove abiti tu”. Cambiò espressione, divenne più dolce e mi sussurrò all’orecchio: “È il più grande folclorista e antropologo della Russia, forse del mondo”. “Chi sarà mai, Vladimir Propp!”. “Allora fai il finto tonto, è proprio il ‘professore’, e non fare il furbo, con me queste cose non attaccano”.

Così conobbi un uomo geniale, dai modi gentili e aristocratici: l’autore de “La morfologia della fiaba”, con cui si confronteranno strutturalisti come Levy-Strauss ed emeriti semiotici compreso il nostro Umberto Eco. La cosa che mi colpì in lui fu l’uso del sostantivo semiotica ed etimologia, la branca del sapere che studia l'origine e la storia delle parole. Ecco perché quando decenni orsono ho iniziato ad insegnare russo la mia parola più ricorrente era “etimologia”, seguita da una raccomandazione: “Applicatela alle parole russe che scriverò sulla lavagna”. Naturalmente le mie analisi rispecchiavano in parte il lato scientifico dell’etimologia, ma spesso costituiscono una mia “vulgata” che agli italiani risultava più convincente della scientificità stessa del procedimento etimologico.

Prendiamo ad esempio – dicevo -  i nomi propri, quelli che gli italiani percepiscono come indiscutibilmente russi: Ivan, Boris, Dmitrij, Ekaterina, Natalia e Tatiana. Ivan corrisponde al nostro Giovanni che nell’antico ebraico Yohanan significava Yahvè è misericordioso; Borìs, che noi italiani pronunciamo con l’accento sulla O, viene da una parola turca che significa “vantaggioso”; Dmitrij consente una spiegazione più semplice perché ci rimanda alla dea greca della fertilità e significa “dedicato a Demetra”. Per i nomi femminili è più semplice perché li troviamo anche tra le donne italiane: Caterina dal greco antico Kataros (pulita, senza peccato), Natalia ovviamente proviene direttamente dal latino, Tatiana invece è di origine incerta e può significare secondo il contesto individualista, accorta o esigente.

Per i cognomi il divertimento degli studenti era massimo e le mie spiegazioni restavano per sempre nella loro mente. Dopo aver spiegato che i cognomi russi fondamentalmente si formano da normali vocaboli con l’aggiunta dei suffissi ov/ev/ёv (circa il 79% di tutti i cognomi russi) oppure di in/yn e skij/ckij, cominciavo da Puškin/“cannone”, poi davo del “gobbo” a Gorbaciov, alternando cognomi di grandi scrittori a politici attuali: così Dostojevskij era “un uomo degno”,  Medvedev un uomo caracollante come un orso, Tolstoj un “ciccione” e Putin “un bambino nato in viaggio/cammino”.

I nomi di città dipendevano dalla loro storia. Dunque Mosca, che non ha nulla a che vedere con il fastidioso insetto e che in russo si pronuncia Maskvà, in realtà viene dalle parole vetero-slave mosk e kov che significano “nascondersi in un riparo in pietra”, mentre la Moscova (Maskvà-rekà) ha avuto origine dalle norrene vichinghe che solcavano i fiumi della Rus’. Da parte sua l’etimologia della città di Vladivostok è molto semplice e viene reiterata in tutte le altre che sono precedute da verbo Vladet’ (conquistare). A me piaceva chiamarla “la conquistatrice dell’Oriente” al pari di Vladikavkaz  “Conquistatrice del Caucaso” e via dicendo.

Più complessa e particolare è la storia del nome di San Pietroburgo. Sorta nel 1703 per volere di Pietro il Grande sulle paludi della foce della Nevà, venne chiamata Sankt-Peterburg in onore di San Pietro (lui era troppo furbo per dire apertamente che portava il suo nome). All’inizio della Prima guerra mondiale, quando la Germania entrò in guerra con la Russia, Nicola II la ribattezzò Petrograd; dopo l’Ottobre del 1917 e la morte di Lenin, diventò Leningrado e al crollo dell’Urss il sindaco Anatolij Sobčàk indisse un referendum per tornare al nome iniziale – San Pietroburgo. Vinse con il 54% dei consensi, ma fu il primo e l’ultimo a chiamarsi sindaco. I suoi nemici politici dopo di lui abolirono il “sindaco” e lo chiamarono “governatore”.

Poi passavo a spiegare brevemente l’origine di alcune parole entrate nel lessico italiano: Vodka, Sputnik, Matrioška e Kosmos.

La vodka – spiegavo - è una bevanda che cominciò a circolare nel XIV secolo, viene da un termine noto – vodà/acqua – ma essendo alcolica equivale alla nostra acquavite, insomma alla grappa. Poi raccontavo la controversa versione presente nella tesi di dottorato del grande chimico Mendeleev, secondo il quale la gradazione perfetta della bevanda è quella di 40° e che la migliore in assoluto nel 1894 sarebbe la “Moskovskaja osobennaja”, su cui lo Stato zarista due anni dopo impose il brevetto.

Spùtnik è un termine che significa “compagno di viaggio” e poi “satellite”, e ha dato il nome ai primi dieci satelliti artificiali terrestri sovietici. Il primo della serie, che è stato anche il primo della storia dell’astronautica, fu lanciato il 4 ottobre 1957

Matrioška è un caratteristico insieme di bambole, tipico della tradizione russa, che si compone di pezzi di diverse dimensioni realizzati in legno, ognuno dei quali è inseribile in uno di formato più grande. Ogni pezzo si divide in due parti ed è vuoto al suo interno, salvo il più piccolo che si chiama "seme". La bambolina più grande si chiama invece "madre". È il souvenir russo per eccellenza e un simbolo dell'arte popolare di questo Paese. La prima matrioška di cui si ha notizia risale alla fine del XIX secolo. Forse etimologicamente potrebbe avere origine dal latino “matrona”. Nell'anno 1900, all'Esposizione mondiale di Parigi, la matrioška fu premiata e riconosciuta come simbolo della tradizione russa per la sua popolarità in tutto il mondo.

Kosmos viene direttamente dal greco ed equivale a spazio celeste, e Cosmonauta è il corrispettivo del nostro Astronauta, colui che viaggia a bordo di veicoli spaziali; navigatore spaziale, come quegli Argonauti che solcavano il mare alla ricerca del Vello d’oro. Nella mia vita ho avuto la fortuna di conoscere personalmente l’astronauta italiano Umberto Guidoni e la cosmonauta Valentina Tereškova, di cui sono diventato negli anni un caro amico. Ricordo ancora il teatro Argentina stracolmo di gente per vedere e sentire la prima donna astronauta della Terra.

La mia conclusione era sempre la stessa: “Ragazzi, studiare il russo non è solo imparare una lingua, ma anche scoprire un mondo ancora sconosciuto, perchè attraverso lo studio di questa lingua conoscerete il Pianeta Russia, un mondo fatto di storia, letteratura, cultura, scienza e di mille altre cose. E credetemi, ne vale la pena”.

 

Il pezzo è stato scritto da Carlo Fredduzzi, direttore dell’Istituto di cultura e lingua russa. Il criterio di traslitterazione dei termini russi scelto dall’autore del testo non sempre corrisponde a quello normalmente adottato da Russia Beyond.

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