“Ci servono milioni di proprietari, non di una manciata di milionari“, disse il presidente russo Boris Eltsin in un discorso alla nazione, spiegando lo scopo della privatizzazione, nel 1992.
Alla fine del 1991, il Paese era sull’orlo della bancarotta. L’economia pianificata si era dimostrata inefficiente, non c’erano abbastanza soldi per far funzionare le fabbriche e pagare gli stipendi. La moneta si svalutava rapidamente: il tasso di inflazione fu del 160% nel 1991 e del 2508,8% nel 1992. L’emergere di un nuovo modello economico richiedeva una transizione verso la libera determinazione dei prezzi.
“Le riserve valutarie erano a zero, non c’erano soldi non solo per comprare il grano, ma anche per pagare il nolo delle navi per trasportarlo. Le riserve di grano, secondo previsioni ottimistiche, erano sufficienti fino a circa febbraio-marzo 1992”, così Anatolij Chubais (1955-) e Egor Gajdar (1956-2009) hanno descritto lo stato dell’economia russa dell’epoca nel loro libro “Razvilki novejshej istorii Rossii” (ossia “I punti di svolta della storia moderna della Russia”). Furono loro due i principali ideologi della riforma economica.
Una privatizzazione veloce
La leadership del Paese prese in considerazione tre modelli di privatizzazione. Il modello britannico, cioè la vendita di grandi imprese, per lo più a basso margine, a prezzi inferiori a quelli di mercato, sembrava un procedimento troppo lungo, in quanto avrebbe potuto richiedere fino a vent’anni. Al nuovo governo questo non andava bene, perché non aveva solo obiettivi economici ma anche politici, ovvero staccarsi dal passato comunista il prima possibile.
Anatolij Chubais, all’epoca presidente del Comitato per la proprietà statale russa, ha dichiarato in un’intervista televisiva del 2010 che “la privatizzazione in Russia prima del 1997 non fu affatto un processo economico… Rispondeva solo a un obiettivo fondamentale: fermare il comunismo”.
Il secondo modello di privatizzazione preso in considerazione prevedeva l’apertura di depositi nominativi presso Sberbank, ma era tecnicamente difficile da attuare, dato il basso livello di sviluppo del sistema bancario dell’epoca e l’elevato numero di abitanti.
Fu scelto il modello ceco; il più rapido: la privatizzazione attraverso la distribuzione di voucher, che potevano essere scambiati con azioni di società, venduti o donati. Nella Repubblica Ceca, tuttavia, i buoni erano nominativi, mentre in Russia erano al portatore.
Come fu realizzata la privatizzazione
Il 14 agosto 1992 Boris Eltsin firmò un decreto sulla distribuzione dei buoni alla popolazione. In teoria, qualsiasi cittadino sarebbe potuto diventare proprietario di una parte di una grande impresa. Per 25 rubli (una cifra molto ridotta all’epoca) ogni russo poteva ricevere un “check di privatizzazione” (comunemente detto “voucher”) del valore nominale di 10.000 rubli.
Il valore delle proprietà statali soggette a privatizzazione all’epoca era di 1.400 miliardi di rubli. Il Paese iniziò a emettere 140 milioni di voucher. Ogni cittadino del Paese aveva diritto a un buono, “dai neonati ai più anziani”.
Le grandi imprese industriali e agricole (aziende agricole collettive e statali; kolkhoz e sovchoz), i terreni e gli alloggi dovevano essere privatizzati. Venne attuata una trasformazione da società statali a società per azioni. La privatizzazione fu vietata solo in alcuni settori (estrazione delle materie prime, abbattimento delle foreste, sfruttamento economico della piattaforma continentale, oleodotti e strade pubbliche). Nel tempo, l’elenco delle imprese e dei settori privatizzati si è poi ampliato.
In realtà, era difficile valutare il valore reale delle proprietà statali. Vennero utilizzati come base i dati di valutazione dell’economia pianificata, anche se era poi necessario mettere quelle proprietà sul mercato azionario per garantire una formazione del prezzo obiettiva.
“In condizioni di alta inflazione e instabilità macroeconomica, il prezzo degli asset privatizzati fu sottostimato, le entrate per il Bilancio statale derivanti dalla privatizzazione sono state insignificanti, e questo ha ridotto la legittimità della privatizzazione”, ha dichiarato l’economista Sergej Guriev.
Voucher: un’opportunità di far soldi
A tutti coloro che ricevevano i voucher era consegnato anche un promemoria: “Il check di privatizzazione è un’opportunità di successo economico che viene data a tutti. Ricordate: chi compra check ha più possibilità, chi li vende si priva di una prospettiva di guadagno!”.
Il voucher poteva essere utilizzato per acquistare azioni di qualsiasi impresa russa in via di privatizzazione. Il prezzo delle azioni era determinato mediante aste. Inoltre, i dipendenti delle imprese potevano acquistare le loro azioni a prezzi scontati. Dal dicembre del 1992 al febbraio del 1994 si tennero 9.342 aste, in cui vennero utilizzati 52 milioni di voucher.
I russi che acquistarono azioni di grandi aziende orientate all’esportazione hanno avuto più successo degli altri. Le aziende che lavoravano per il mercato nazionale ebbero vita molto più difficile. La popolazione, infatti, non aveva denaro per acquistare i loro prodotti. E molte imprese fallirono entro poco tempo.
Uno degli investimenti più redditizi è stato Gazprom, ma anche in questo caso non fu facile per i semplici cittadini avere successo. Le azioni vennero quotate in modo diverso a seconda della regione. Nella regione di Perm si potevano acquistare 6.000 azioni Gazprom per 1 buono, a Mosca solo 30 e nella vicina Regione di Mosca 300. (Al prezzo di 317 rubli per azione nel giugno 2022 e a un tasso di cambio di 57 rubli per dollaro, 6.000 azioni di Gazprom equivalgono oggi a 33.368 dollari).
Ma mentre alcuni alcuni usarono il voucher ber acquistare azioni del gigante dell’energia, altri li cedettero a terzi per pochi soldi o li scambiarono con cibo, vodka ed elettrodomestici.
Come sono nati gli oligarchi
All’inizio della privatizzazione, i capi delle fabbriche e degli impianti, i cosiddetti “direttori rossi” che avevano acquisito potere durante l’era sovietica, presero il sopravvento. Inducevano i lavoratori a vendere le loro azioni e potevano trattenere i loro salari, costringendoli ad accettare. Di conseguenza, i “direttori rossi” divennero proprietari unici di grandi imprese. Ma poiché non avevano le competenze per operare in un ambiente di mercato, molti di loro hanno poi perso il loro potere. Le imprese sono state rilevate da gruppi finanziari, non senza il sostegno di ambienti criminali.
Inoltre, in tutto il Paese cominciarono a comparire i “fondi dei check”, dove i cittadini potevano depositare i voucher e ricevere i dividendi. Ma molti non li hanno mai ricevuti. Su 646 fondi, solo 136 società hanno pagato dividendi. Il resto ha miseramente cessato di esistere.
Di conseguenza, alla fine del 1994, il 60-70% delle aziende del commercio, della ristorazione pubblica e dei servizi al consumo erano state privatizzate. Il destino dei voucher fu il seguente: il 50% dei proprietari di voucher li investì nelle aziende per cui lavorava, circa il 25% finì nei fondi e il 25% fu ceduto a terzi.
Il colpo più duro alla legittimità della privatizzazione venne inferto dalle aste collaterali tenutesi a partire dal 1995. Il governo aveva contratto prestiti garantiti da partecipazioni statali in grandi aziende (Yukos, Norilsk Nickel, ecc.), ma non riuscì a ripagarli. Le partecipazioni in pegno vennero rilevate dai creditori. In questo modo divennero proprietari delle azioni delle società a prezzi inferiori a quelli di mercato.
“L’unico strato sociale allora pronto a sostenere Eltsin era il grande capitale”, ha scritto Evgenij Jasin, ministro dell’Economia russo (dal 1994 al 1997). E per i loro servigi pretendevano in cambio pezzi di proprietà dello Stato. Inoltre, volevano influenzare direttamente la politica. È così che sono nati gli oligarchi”. (“Democratici, fuori!”, da Moskovskie Novosti, 2003. № 44, 18 novembre).
Come hanno calcolato gli estensori della celebre lista di “Forbes”, i 2/3 dei miliardari russi in dollari (nel 2012) hanno accumulato il grosso della loro fortuna durante le privatizzazioni.
Il giudizio della popolazione
Nei primi anni della privatizzazione, l’atteggiamento della popolazione era neutrale. La sociologa Tatjana Zaslavskaja ha scritto nel 1995: “Per quanto riguarda […] il processo di privatizzazione, non ha ancora avuto un impatto significativo sul comportamento dei gruppi sociali di massa… Solo il 7% dei lavoratori vede una dipendenza diretta dei guadagni dagli sforzi personali, il resto considera l’uso dei legami familiari e sociali, la speculazione, la frode, ecc. come le principali vie del successo”. (“La Russia alla ricerca del futuro”, dalla rivista “Sotsiologicheskie issledovanija”. 1996, № 3).
L’atteggiamento è cambiato nel corso degli anni. Un sondaggio condotto dal centro di ricerca Vtsiom nel 2017, in occasione del 25° anniversario della privatizzazione, ha mostrato che il 73% della popolazione ne valuta negativamente l’esito.
C’è stato qualche effetto positivo delle privatizzazioni?
Nonostante le critiche alla privatizzazione, bisogna ammettere che ha cambiato radicalmente l’economia del Paese. Il professor Sergej Orlov, dottore in scienze economiche, ritiene che la privatizzazione sia stata un passo necessario per creare la giusta mentalità economica e far affermare le nozioni di mercato libero e di competizione tra la popolazione. A suo avviso, questa cura choc ha gettato le basi per la moderna sfera del commercio, dei servizi, del complesso agroindustriale e dell’industria delle costruzioni, che si stanno sviluppando con crescita costante dalla fine degli anni Novanta.
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