La chiamavano la “Signora della Luce”, per quel suo utilizzo sapiente della luce nelle foto, attraverso giochi di specchi e superfici riflettenti. Prima modella, presenza fissa sulle copertine di Vogue e Harper’s Bazaar, poi fotografa (determinante si rivelerà quella reflex Minolta regalatale da Hiro Wakabayashi), Alberta Tiburzi diventa “figlia di un tempo protagonista del tempo”. Ora il Multimedia Art Museum di Mosca le dedica la prima mostra personale dal titolo “Alberta Tiburzi. Un’epoca sfavillante. La moda italiana negli anni ‘80”, allestita nell’ambito della XII Biennale internazionale “Moda e stile nella fotografia - 2021”. L’esposizione, curata da Olga Strada, si terrà dal 9 giugno al 28 luglio 2021.
L’Alberta “modella” nasce letteralmente per caso: viene infatti scoperta da un talent scout mentre cammina tra le vie di Roma, sua città natale. Era giovanissima. E bellissima. Dopo una sfolgorante carriera per i più grandi nomi della fotografia di moda e non solo, da Avedon a Newton, da Barbieri a Penn, fino a Wakabayashi, Alberta cambia prospettiva, e si mette dall’altra parte dell’obiettivo. Le prime immagini, scattate senza troppa convinzione, incontrano subito la stima dei grandi maestri, che la incoraggiano a proseguire su quella strada. Nei suoi ritratti si scorge infatti un uso audace della luce, proprio quella luce che Fellini aveva teorizzato come l’elemento principe di tutte le arti figurative.
Chiamata a New York dalla direttrice di Vogue, Diane Vreeland, frequenta la Factory di Andy Warhol e i fotografi più in voga dell’epoca. Approda poi ai set di moda, diventando una delle fotografe più richieste dalle riviste patinate nel periodo in cui i nomi dei couturier italiani conquistano il mondo. Così come si legge nella presentazione della mostra, la caratteristica dei suoi set fotografici è quella di creare un’alchimia perfetta tra abito, modella e luogo. Quest’ultimo aspetto lo si coglie soprattutto nei servizi realizzati in una città stratificata di storia e monumenti come Roma, dove gli elementi sono miscelati con esoterica sapienza e al tempo stesso sono pieni di vitale slancio, di gioco tra la modella e il luogo che la accoglie. Né la voluttuosità del barocco, né il rigore dell’architettura razionalista predominano su quello che è il protagonista dello scatto: l’abito. Nei set fotografici allestiti da Alberta Tiburzi si coglie un approccio per certi versi cinematografico, così come di procedimenti mutuati alle avanguardie artistiche, grazie agli elementi astratti che irrompono nello spazio dell’immagine. Le forme aliene inserite nell’inquadratura non possono non essere una chiara eco delle ricerche formali che innervavano il palcoscenico mondiale dell’arte di quegli anni: la Pop Art, lo Spazialismo, l’Arte Cinetica, l’Astrattismo materico. Padrona del processo creativo dall’inizio alla fine, Alberta Tiburzi sceglie le modelle e il più delle volte è una vera e propria talent scout. Tra i volti iconici da lei lanciati nell’empireo della moda ci sono Simonetta Gianfelici e la canadese Dayle Haddon, il cui volto di porcellana incorniciato da riccioli ribelli ha campeggiato sulle più prestigiose copertine dell’epoca.
Il corpo femminile catturato dall’obiettivo di Alberta Tiburzi è un corpo libero e moderno, un corpo in movimento, che fluttua in unione con gli elementi naturali che lo accolgono, che si tratti di acqua, sabbia, rocce o erba. Indubbiamente un corpo sensuale, ma privo di feticismo maschile, di un eros fatto di dominio e lotta; piuttosto un corpo che trasmette, nella sua pura bellezza, un sentimento di estatica contemplazione e fusione con il mondo. Un eterno, moderno femminino che ha anticipato la liberazione della donna da stereotipi attaccati ad essa come stracci ormai desueti.
Per maggiori informazioni sulla mostra, cliccate qui
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