La profezia di Khodasevich nella sua lettera da Venezia ai tempi del colera

È uscito per la prima volta in Italia il racconto “Festa Notturna” del poeta russo di inizio ‘900: attraverso la narrazione di una grottesca serata fra le calli veneziane, Khodasevich ci lascia una profezia che resiste al tempo, denunciando come il dono della bellezza possa facilmente trasformarsi in fardello sotto il peso del turismo di massa

“L’Italia non può scappare o nascondersi dalla bellezza, né mai compirà peccato tanto grave da esserne privata”, scriveva il poeta Vladislav Khodasevich (1886-1939) all’amico Samuil Kissin nell’estate del 1911 durante un soggiorno a Venezia. Il 1911 fu l’anno dell’epidemia di colera descritta da Thomas Mann in “Morte a Venezia” e, a distanza di 110 anni e nel pieno di una pandemia, le parole di Khodasevich e il suo j’accuse contro la “svendita” dell’Italia ai turisti riecheggiano più attuali che mai nel racconto “Festa Notturna. Lettera da Venezia” (Ночной праздник. Письмо из Венеции, Damocle Edizioni, pagg. 36, euro 10, con testo originale a fronte), appena pubblicato in Italia con la traduzione di Maria Emelianova.

Tra la fine dell'800 e l’inizio del '900 Venezia attira come una sirena poeti e letterati russi, scrittori e viaggiatori, che restano incantati da quel “gigantesco specchio liquido” che tempo dopo avrebbe fatto innamorare anche Brodskij. In quegli anni per le calli che costeggiano il Canal Grande passeggiano Herzen e Dostoevskij, Mandelshtam e Dyagilev (che si godeva la vista in Piazza San Marco seduto "come fosse un grande salone di casa sua"); Chekhov osservava i tetti e le altane dall'Hotel Bauer vicino alla celebre Ca' Giustinian, mentre Blok, mosso da una crisi creativa e familiare, cercò nuove fonti di ispirazione proprio tra i riflessi della Laguna. Dalla Russia arriva anche Khodasevich che, fra l'incanto dei colori del Mediterraneo, non può fare a meno di notare l’usurpazione di un turismo vorace.

Se da un lato la bellezza del Belpaese è un “dolce dono del cielo” conferito a questa terra “per l’eternità”, dall’altro è grazia e dannazione: Venezia vive grazie agli stranieri, dice Khodasevich nella sua lettera, e le sue riflessioni sullo Stivale hanno il peso di una condanna senza fine: “Per compiacere i francesi, gli inglesi, i tedeschi, gli americani che si sono riversati in massa alle sue porte spalancate, erige febbrilmente alberghi di cattivo gusto (...), trafora montagne per fare spazio alle ferrovie. Nulla è più volgare, abietto, impersonale di questa folla internazionale che ha inondato l’Italia”.

Con le sue considerazioni Khodasevich ci costringe a guardarci allo specchio. E a guardare Venezia, la più straordinaria delle perle italiane, svenduta al turismo di massa oggi come ieri, oggi più di ieri. “Tutto è colorato in modo rozzo e pacchiano, ma soprattutto dozzinale, nel gusto dello straniero-bagnante”, ammonisce il poeta più di un secolo fa. Cosa è cambiato da allora? Cosa resta della grandezza di quella città di mercanti e navigatori? Cosa resta dell’autenticità delle botteghe, ora negozietti di merci scadenti? Cosa resterà un domani di questa gemma adagiata sull’acqua, da troppo tempo interprete di una penosa recita di se stessa? Le riflessioni di Khodasevich suonano come una profezia e uno schiaffo in faccia e riaffiorano attraverso la narrazione degli eventi accaduti durante una “grottesca festa notturna” a Venezia. 

Come fa notare Maria Emelianova, che ha realizzato la traduzione e l’introduzione, Khodasevich “mostra come il dono divino della bellezza può facilmente tramutarsi in fardello nel momento in cui di questa bellezza si fa abuso”. 

Oltre a dipingere un’immagine dinamica della Venezia di inizio ‘900, straripante di turisti che affollano le calli e le spiagge del Lido, il racconto è accompagnato da suggestive fotografie d’epoca che svelano la magnificenza senza tempo di questa città baciata (e condannata) dalla bellezza.

L’autore

Vladislav Khodasevich nacque a Mosca nel 1886. Dopo l’emigrazione a Berlino nel 1922, visse a Praga, Parigi e fu ospite di Maksim Gorkij a Sorrento. Brillante voce della poesia russa del primo ‘900, ci ha lasciato cinque raccolte, tra cui “La Pesante Lira” (1923) e “La Notte Europea” (1927). Morì a Parigi nel 1939.

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