Il Malyj di Mosca è ormai la sua seconda casa: lì, nel Teatro “Piccolo” della capitale russa, uno dei più antichi del paese, Stefano De Luca ha portato in scena negli anni le commedie di Carlo Goldoni (“Gl'innamorati” e “Arlecchino servitore di due padroni”) e “Filumena Marturano” di Eduardo De Filippo. Dopo il lockdown, il regista torna con un altro capolavoro firmato dallo sceneggiatore napoletano: “Natale in casa Cupiello”, l’opera tragicomica tra le più famose di De Filippo, interpretata per l’occasione da Vasilij Bochkarev (Luca Cupiello), Evgenya Glushenko (Concetta) e Aleksandr Naumov (Tommasino). Una scommessa che ha assunto il sapore della sfida con lo scoppio della pandemia: inizialmente annunciata per la primavera 2020, la prima dello spettacolo si terrà - finalmente - il 5 settembre.
Al Piccolo di Milano sono stato allievo e assistente di Giorgio Strehler, e da anni ormai mi occupo dello spettacolo “Arlecchino servitore di due padroni” (recuperato e rinominato proprio da Strehler per i palcoscenici internazionali alla fine degli anni ‘40, ndr). Con questo spettacolo abbiamo girato il mondo e ci siamo recati più volte anche a Mosca. In una di quelle occasioni siamo stati al Malyj, dove abbiamo realizzato un laboratorio sulla Commedia dell’Arte: l’iniziativa è piaciuta talmente tanto al direttore del teatro, Yurij Solomin - un artista incredibile! - che alla fine mi ha chiesto di dirigere i suoi attori nella commedia “Gl'innamorati” di Goldoni. La sua è stata un’intuizione straordinaria: ne è nata infatti una collaborazione che non si è più interrotta. Da allora sono passati quasi dieci anni.
Sono stato a Mosca fino al 25 marzo e, a causa del virus, il team italiano che di solito mi affianca nell’allestimento dello spettacolo, come la costumista Linda Riccardi, non ha potuto raggiungermi per l’ultimo periodo di prove. Perciò alla fine mi sono ritrovato a lavorare 15 ore al giorno come regista, scenografo, costumista, hair designer, seguendo le indicazioni dei colleghi a distanza… È stata un’avventura!
Fortunatamente con gli attori del Malyj c’è un rapporto molto forte: è come se fossimo una grande famiglia... e mentre fuori succedeva quel che tutti sappiamo, noi ci siamo “chiusi” in quella “scatola magica” che è il teatro a fare le prove. È stata una situazione difficile, ma di grande vicinanza dal punto di vista umano.
Quando anche a Mosca hanno imposto lo stop ai teatri, lo spettacolo per fortuna era già finito: mancava solo la presentazione al pubblico. Lo abbiamo ripreso in mano cinque mesi dopo, a distanza, con degli incontri online per le ultime correzioni. Tutto ciò, ovviamente, non sarebbe stato possibile se l’allestimento non fosse stato già pronto: la presenza del regista a teatro, seduto sulla poltrona dello spettatore, da dove controlla le luci e i suoni, non è riproducibile online.
Questo è un aspetto molto interessante, che noi teatranti ci ritroviamo ad affrontare ogni qual volta portiamo in scena, ad esempio, Chekhov o Shakespeare: è difficile, infatti, percepire la profondità di un testo tradotto: la musicalità della lingua si perde, le sfumature vengono meno.
Ma i grandi autori come Cekhov, Shakespeare e De Filippo sono talmente universali nel loro modo di raccontare gli esseri umani che resistono anche a questo processo di traduzione e “tradimento”.
Credo inoltre che il tema della famiglia, così caro alla cultura russa, sia un punto di contatto molto forte, capace di unire due mondi apparentemente distanti come quello di Napoli e Mosca.
Io sono napoletano, quindi ero ben consapevole della difficoltà che questa sfida proponeva. Abbiamo realizzato una nuova traduzione in russo, partendo da una sorta di traduzione in italiano che avevo realizzato per la traduttrice, con la quale abbiamo sempre lavorato a stretto contatto. Insomma, siamo passati dal dialetto napoletano all’italiano e poi al russo. È stata un’operazione complessa che ha richiesto molto tempo.
Non desideriamo far fare i napoletani agli attori russi; non vogliamo appoggiare loro addosso dei modi di fare che non gli appartengono, e che per questo risulterebbero goffi e artificiosi. L’obiettivo, quindi, è far incontrare l’esperienza dell’attore russo - la sua idea di interpretazione di un personaggio popolare - con le proposte del regista attraverso il testo di De Filippo: ne risulta qualcosa di unico, che non è più propriamente napoletano né russo.
La sfida più interessante è stata trasportare alcuni elementi della religione cattolica assenti nella tradizione russa, come il presepio: ci siamo chiesti a lungo come tradurre questa parola. Alla fine abbiamo optato per il termine russo “вертеп” (vertep, un teatro di marionette del periodo natalizio presente in alcuni paesi dell’est e in alcune zone della Russia, ndr).
Anche se non l’ho mai studiato, un po’ di russo in questi anni l’ho acquisito. Certo, la barriera linguistica esisterà sempre, ma con il tempo si è assottigliata. Devo però riconoscere che senza Bochkarev (nel ruolo di Luca Cupiello, ndr) non avrei mai osato affrontare un testo di questo tipo.
Ovviamente la conoscenza degli attori e il metodo di lavoro che si è instaurato negli anni hanno creato una dinamicità che ci ha permesso di realizzare lo spettacolo in pochi mesi.
Innanzitutto bisogna dire che il pubblico di Mosca non è lo stesso della provincia; e anche nella stessa Mosca esistono tanti pubblici differenti: ogni teatro ha il suo. E quello del Malyj è colto e amante dei classici.
Certo! Due, per la precisione: Lev Dodin, più volte ospite al Piccolo di Milano, e Anatolij Vassilev, un grande artista che ha influenzato molto il mio lavoro con l’attore.
Sono profondamente innamorato della cultura e del teatro russo! Ai tempi di Strehler sono stato circa un mese alla scuola del Teatro Malyj di San Pietroburgo dove avevano selezionato alcuni giovani registi europei per uno scambio culturale. In quelle settimane abbiamo fatto lezioni di canto in russo, di danza, lezioni di regia con Lev Dodin... In 40 giorni abbiamo visto tutti gli spettacoli del repertorio del Malyj. È stato un momento molto importante di formazione.
Il teatro è legato al luogo dove si fa teatro, che ovviamente è cambiato nel corso dei millenni: i comici dell’arte lo facevano per strada, negli angoli delle piazze, prima che si spostasse all’interno dei grandi saloni…
Evidentemente, questo concetto si dovrà modificare ancora. Il terremoto che stiamo vivendo suggerisce a noi teatranti una riflessione su come il teatro si può adattare a nuove circostanze: è una sfida grande e interessante, che va a scardinare una serie di abitudini che fanno male al teatro stesso perché lo cristallizzano in forme sempre uguali e ormai scontate. Di sicuro questi mesi di lockdown ci hanno fatto capire l’importanza del teatro che avviene davanti agli occhi degli spettatori, senza la mediazione della tecnologia. È un catastrofico modo per rimettere tutto in discussione.
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