Noi russi portiamo sulle spalle il peso di un enorme fardello; un fardello che ha le sembianze di due uomini seri e barbuti: uno si chiama Lev Tolstoj, l’altro Fyodor Dostoevskij. Immaginateveli seduti uno sulla spalla destra, l’altro sulla sinistra, con un colossale patrimonio letterario che ci schiaccia pesantemente verso terra. Saremo costretti a portarli con noi per tutta la vita, ovunque andiamo.
È così che ci sentiamo noi russi, culturalmente parlando, un secondo dopo aver conosciuto stranieri come voi, che hanno un minimo di familiarità con la letteratura russa. I commenti sono sempre gli stessi: “Oh, Dostoevskij! Ah, Lev Tolstoj…!”. Certo, quei due sono stati dei veri geni. Ma ancora oggi il peso della loro eredità letteraria mette nell’ombra altri scrittori russi di talento, che meriterebbero maggior riconoscimento a livello globale.
Conosco almeno un autore che potrebbe vincere senza troppe difficoltà il braccio di ferro con il fenomeno “Tolstoevskij” (così come vengono ironicamente indicati i due autori): mi riferisco ad Anton Chekhov.
Di seguito vi spiego perché, a mio avviso, Chekhov è di gran lunga il più figo!
Giudicare la qualità di un romanzo a seconda della sua lunghezza è un criterio piuttosto insensato. Ma per noi russi, che fin da piccoli siamo cresciuti con la consapevolezza di dover leggere almeno una volta nella vita “Guerra e pace” di Tolstoj, le dimensioni contano! Provate voi, da ragazzi, a dover macinare a scuola i quattro volumi di “Guerra e pace”, dovendoli nel frattempo combinare con lo studio di altre materie… Siate pur certi che si apprezza infinitamente il dono della sintesi, (quasi) totalmente sconosciuto a Tolstoj!
Chekhov, invece, è il Lionel Messi dei racconti brevi: gli bastano alcuni piccoli dettagli e qualche battuta spiritosa per raccontare in poche righe la storia di un personaggio che Tolstoj e Dostoevskij avrebbero invece descritto in 10 interminabili pagine!
Che resti fra di noi: la letteratura russa sa essere straziante. Ma l’approccio di Chekhov è ben diverso. Perché? Pensateci bene: i personaggi di “Tolstoevskij” soffrono tanto, in modo così complicato e altolocato (una cosa piuttosto comune nel XIX secolo), che arrivano a struggersi da soli nelle loro riflessioni su Dio, sull'amore e sull'anima russa... Che noia! Il film “Amore e morte” di Woody Allen del 1975 è stato brillante nel prendere in giro questa visione della vita: "Amare è soffrire. Non amare è soffrire. Soffrire è soffrire...".
Chekhov, a differenza di Dostoevskij e Tolstoj, ritrae i propri personaggi come persone comuni: meschine, ridicole, annoiate, che sognano a occhi aperti un mondo migliore, eppure restano bloccate nella loro vita (se non vi rivedete in questi personaggi significa che siete delle persone felici e probabilmente non avete bisogno della letteratura russa!).
Insomma, siamo un po’ tutti dei personaggi alla Chekhov! Più difficile invece è ritrovarsi negli eroi di “Tolstoevskij” (a meno che non abbiate ucciso qualche vecchia signora con un’ascia, o sconfitto Napoleone…).
L'intero spettro emotivo di Chekhov può essere facilmente rappresentato nella sua ironica citazione: “Oggi è una così bella giornata…! Non so se bere una tazza di tè o impiccarmi”. Sembra proprio un altro giorno in ufficio, no?
Sia Dostoevskij che Tolstoj avevano il loro bel bagaglio di valori, ed erano ben contenti di inculcarli nella testa dei propri lettori: il cristianesimo ortodosso hardcore condito con il monarchismo conservatore nel caso di Dostoevskij, e l'anarchismo pacifico e radicale gandhiano (in realtà, è stato Gandhi a imparare da lui, come vi abbiamo raccontato qui) nel caso di Tolstoj. Non significa che quei concetti dominassero tutta la loro prosa, ma erano sempre dietro l’angolo… e per chi non ama i sermoni, la faccenda si fa dura.
Un mio amico una volta mi disse: "Quando leggo Tolstoj, ho come la sensazione di sentire qualcuno brontolare in continuazione; e anche se il brontolio è per una giusta causa, è comunque fastidioso”. Questo con Chekhov non accade, perché egli non fa altro che predicare dignità, pazienza e umorismo. Ecco, ad esempio, una citazione tratta da una sua lettera indirizzata alla sorella: "Bisogna essere pronti a tutto e considerare tutto inevitabilmente essenziale, per quanto triste possa essere". Ciò riassume più o meno tutta l'ideologia di Cechov.
Forse capita solo a me, ma io preferisco gli autori i cui principi e lo stile di vita siano in qualche modo vicini ai miei. In questo paradigma, Chekhov si avvicina molto! Da un lato, si è goduto la vita al massimo, a volte in modo irresponsabile (una volta scrisse: "Mentre ero a San Pietroburgo, ho bevuto talmente tanto che la Russia sarebbe fiera di me!).
Dall'altro lato, era un lavoratore devoto, che univa la letteratura alla sua vera professione, la medicina ("la medicina è la mia moglie legittima, mentre la letteratura è la mia amante", diceva); e si faceva in quattro per aiutare tutti coloro che lo circondavano, dai suoi genitori ai suoi fratelli, dai suoi numerosi amici ai contadini locali che egli curava gratuitamente.
Nel 1890 si recò nella remota isola di Sakhalin (6.400 km a est di Mosca), dove contribuì a realizzare un censimento e scrisse un saggio sul trattamento disumano dei prigionieri inviati nei campi di lavoro forzato.
Morì giovane, a 44 anni, di tubercolosi, di cui soffriva da quando aveva vent'anni. Pur sapendo di essere condannato, ha affrontato la vita con dignità e umorismo fino all’ultimo giorno.
Ultimo ma non meno importante, a livello internazionale Chekhov è conosciuto soprattutto per la sua eredità teatrale, ed è uno dei drammaturghi più portati in scena insieme a William Shakespeare e Henrik Ibsen. I suoi capolavori come “Il gabbiano”, “Il giardino dei ciliegi” e “Tre sorelle” non invecchiano mai, perché hanno la profondità illimitata del sottotesto, e sono sempre aperti all'interpretazione.
Konstantin Stanislavskij disse: "Chekhov spesso esprimeva i suoi pensieri non nei discorsi, ma nelle pause o tra una frase e l'altra... i personaggi spesso sentono e pensano cose che non vengono espresse nelle battute che pronunciano".
In queste cose non dette splende sempre una luce di speranza, che si mescola alla stanchezza e all’imperfezione dei personaggi di Chekhov. Una delle sue opere teatrali più famose, “Lo zio Vanya”, si conclude così: "Troveremo la pace. Ascolteremo gli angeli; vedremo il cielo luccicare di diamanti".
Questa sottile e leggera speranza di qualcosa di meglio, condita con umorismo e sano cinismo, impregna tutte le opere di Cechov, il che, a mio avviso, fa di lui il miglior scrittore russo. Tolstoj e Dostoevskij non potrebbero fare di meglio, con tutto il rispetto.
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